15 Ago 2008

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Non solo indifferenza. Intervista a Laura Malandrino

Non solo indifferenza. Intervista a Laura Malandrino

Immigrazione e giornalismo, sofferenza ed informazione, clandestinità e senso etico: questi i rapporti che vengono in mente quando un giornalista deve guardare con occhi obiettivi la realtà, raccontando i fatti, i personaggi, i luoghi, ma anche le storie, le piccole storie che fanno la grande storia.

E spesso sono le piccole storie quelle che rendono la realtà, che raffigurano lo stato delle cose fornendo un altro punto di vista, soprattutto se si parla di immigrazione.
I viaggi dei migranti, le sofferenze, i soprusi, le ingiustizie e poi l’arrivo in terra straniera, il contatto con persone di diversa cultura, l’indifferenza, ma spesso anche la solidarietà.
Mentre il soccorso che, imposto dalle convenzioni del diritto marittimo internazionale, è punibile con il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, induce i pescatori a “tirare dritto” senza fermarsi, i primi soccorsi offerti in terra ferma, sulle coste, nei centri d’accoglienza, riescono a far prendere coscienza delle storie dei singoli, della loro vita, delle loro avventure per raggiungere le coste italiane. Lì il migrante non è un numero, ma un essere umano con i propri diritti e le proprie sofferenze.
Di immigrazione, di piccole storie, di solidarietà parliamo con Laura Malandrino, giornalista e donna.

D: Laura, hai ricevuto il premio nazionale di giornalismo Più a Sud di Tunisi 2007 per aver raccontato la storia del piccolo Misdan e della madre eritrea: cosa ti ha colpito di questa storia?
R: Il fatto che è la dimostrazione di come la via concreta per l’integrazione sia l’amore, l’attenzione alla persona in sé e alla sua storia, il rispetto per i suoi sogni e le sue attese. L’esperienza di una forma di dialogo, inteso non come programmazione o esercizio della parola, ma volontà di confronto e comprensione profonda dell’altro.
D: Molto spesso sulle nostre coste siciliane arrivano migranti in condizioni disastrate, alcuni addirittura non arrivano. In che modo questi vengono accolti sia dai volontari sia dagli italiani?
R: Come emerge chiaramente dai titoli dei giornali, la Sicilia è una terra di grande accoglienza, sensibile ai problemi dei migranti. Le cronache degli sbarchi, infatti, raccontano la solidarietà della Chiesa locale e degli abitanti delle nostre cittadine marinare da Pozzallo a Portopalo di Capo Passero, da  Lampedusa a Licata e Mazara del Vallo. Nell’ambito della primissima accoglienza, in particolare a Portopalo viene “fotografata” una comunità attiva, sensibile, abituata ad affrontare l’emergenza, purtroppo divenuta normalità,  con coraggio e spirito di sacrificio. In maniera spontanea, ma non per questo disorganizzata. Anzi, capace di attivare una “macchina dell’accoglienza” strutturata in modo esemplare ed efficiente, tanto da essere attenzionata, per questo motivo, a livello nazionale.
D: Da giornalista come ti rapporti al fenomeno dell’immigrazione clandestina?
R: Cerco semplicemente di fare il mio lavoro, nel rispetto della deontologia e dell’etica della professione. Data la delicatezza della tematica, nel giugno del 2007 con il progetto “Equal tratta no!” è stato anche formalizzato un documento con le linee guida per il trattamento dell’informazione in tema di tratta di esseri umani, e nei mesi scorsi è stata elaborata la Carta di Roma, un codice etico che i giornalisti dovranno seguire nel trattare di immigrati, rifugiati politici, richiedenti asilo. La proposta di elaborarla fu lanciata da Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, all’indomani del linciaggio mediatico del tunisino Azouz Marzouk per la “strage di Erba”, in realtà compiuta da una coppia di italiani. La Carta è una sorta di testo unico di principi deontologici già sanciti in numerose convenzioni internazionali e dalla Costituzione, accompagnati da una serie di “raccomandazioni”.
D: E da donna?
R: Mi colpisce il coraggio delle donne, molte delle quali decidono di intraprendere il loro “viaggio della speranza” quando sono in avanzato stato di gravidanza allo scopo di dare alla luce i figli in Italia, anche se spesso questi figli nascono sui barconi al limite delle acque internazionali. Come Mabruc, un bambino eritreo nato al largo delle nostre coste il 2 giugno del 2005 a bordo di un vecchio peschereccio dove erano stipati 175 migranti. L’equipaggio della motovedetta Partipilo della Guardia di Finanza di Pozzallo gli ha salvato la vita. Nel buio della notte durante le ordinarie operazioni di controllo e contrasto all’immigrazione clandestina, la Partipilo ha intercettato la carretta del mare, l’ha raggiunta e l’ha soccorsa. Trovarmi a bordo di quella motovedetta come cronista, quella notte, oltre a darmi la possibilità di raccontare il lavoro straordinario delle nostre forze dell’ordine mi ha fatto toccare con mano il dramma di queste persone, ma anche la loro incredibile voglia di non arrendersi. Non potrò mai dimenticare il cordone ombelicale ancora insanguinato di quel bambino che ho accarezzato e il volto di sua madre che a stento si teneva in piedi, sereno, perché la nostra presenza lì era il segno che l’Italia era vicina, che l’incubo era finito e il suo sogno cominciava a diventare realtà.
D: A tuo avviso che proposte potrebbero essere fatte per arginare il fenomeno?
R: Premesso che il lavoro giornalistico è quello di osservare e “riportare” gli avvenimenti e che le decisioni devono essere demandate all’Unione Europea e ai Governi dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, penso che l’unica via sia quella di incrementare una cooperazione allo sviluppo mirata a crea¬re negli Stati di partenza le condizioni per drenare, almeno nel lungo periodo, i flus¬si migratori in uscita. Andando oltre il semplice slogan o il comodo alibi di “aiutarli a casa loro” sbandierato da tempo ma mai applicato, serve un mix realistico tra rigore e accoglienza, in nome del rispetto della dignità umana e del diritto di tutti alla pace, al lavoro, al pane e alla casa.

Angela Allegria

20 maggio 2008

In www.7magazine.it

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