3 Feb 2014

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L’importanza della distinzione fra categorie della popolazione penitenziaria al fine dell’applicazione del trattamento

L’importanza della distinzione fra categorie della popolazione penitenziaria al fine dell’applicazione del trattamento

Il carcere quale luogo di espiazione di pene temporanee e tendenti alla rieducazione del condannato costituisce un’idea recente.
All’interno della popolazione carceraria possiamo distinguere tre tipologie di figure: i detenuti, gli internati e gli imputati sottoposti a custodia cautelare in carcere.
Dal punto di vista definitorio possiamo affermare che il detenuto è colui che deve scontate una pena temporanea inflitta da una sentenza passata in giudicato. Nei suoi confronti, insieme alla pena, è possibile che si affianchi una misura di sicurezza che, nel caso dell’internato, invece, si sostituisce del tutto alla pena.
La misura di sicurezza è un provvedimento speciale che si applica nei casi di soggetti pericolosi. Essa, a differenza della pena che è prevista nel minimo e nel massimo, è prevista solo nel minimo, ma resta indeterminata nel massimo, non essendo possibile determinare in anticipo la cessazione della pericolosità del soggetto. Si distinguono in personali e patrimoniali, quelle personali a loro volta si differenziano in misure detentive e misure non detentive, in base al fatto che il soggetto sia detenuto in un istituto (riformatorio giudiziario, ospedale psichiatrico giudiziario, casa di cura e di custodia, colonia agricola, casa di lavoro), o sia sottoposto a un regime di libertà vigilata, al divieto di soggiorno, al divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche e l’espulsione dallo Stato dello straniero.
Alla scadenza del periodo minimo, il soggetto sottoposto alla misura, viene nuovamente sottoposto a una nuova valutazione che può cadere nel processo di cognizione se non si è concluso con il giudicato, oppure, in seguito con l’applicazione del procedimento di applicazione della misura di sicurezza. Il procedimento giurisdizionalizzato dopo il passaggio in giudicato della sentenza si applica solo per la misura di sicurezza, non per l’applicazione della pena.
Dal punto di vista del trattamento lo status di detenuto ed internato è equiparato, differisce, invece, quello dell’imputato, al quale non è possibile applicare un trattamento rieducativo, in quanto esso si presume innocente fino a sentenza definitiva.
In base all’art. 27 co. 2 Cost. le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, il che vuol dire che la funzione rieducativa non può prescindere dalla finalità della pena. È compito del legislatore trovare una gamma di sanzioni penali che meglio si adattano alla funzione costituzionale della pena al fine di soddisfare lo scopo della normativa penitenziaria che è la specialprevenzione.
Chi entra in carcere, per motivi processuali o esecutivi, deve ricevere un trattamento “conforme ad umanità”, che assicuri “il rispetto della dignità della persona” e che consenta, altresì, il mantenimento dell’ordine e della disciplina. Si tratta del concetto di intangibilità del corpo del recluso già sancita dal Beccaria.
Con la riforma si assiste al passaggio dalla spersonalizzazione dell’individuo che non è più un mero numero ma un soggetto che perde sì la libertà di locomozione, ma non il diritto di libertà che si fonda sul concetto di libertà umana.
L’art. 3 trova applicazione nei confronti di tutti i soggetti a qualsiasi titolo detenuti negli istituti penitenziari, siano essi condannati, imputati ovvero internati. L’espressione “parità di condizioni” tra detenuti e internati non deve essere interpretata come parità tra due categorie inter se, ovvero tra soggetti con diverso status giuridico, ma deve essere intesa come esigenza di uguaglianza all’interno di ciascuno di esse, posto che il principio di uguaglianza si oppone alle discriminazioni di trattamento, non alle diversità derivanti dalle differenti posizioni dei soggetti. La prospettiva non è quella di assicurare l’uguaglianza di tutti i membri dell’istituzione ma l’imparzialità dell’amministrazione. Non può, infatti, non sottolinearsi come diversa sia la funzione della pena rispetto a quella della misura di sicurezza detentiva. L’una viene inflitta sul presupposto della colpevolezza generale, all’altra, che ha lo scopo di “neutralizzare” la pericolosità sociale del reo, viene affidata una funzione di prevenzione speciale.
Anche il disposto dell’art. 32 co. 3 ord. penit., nel sancire che nessuno tra i detenuti può avere, nei servizi dell’istituto, mansioni che importino un potere disciplinare o consentano l’acquisizione di una posizione di preminenza sugli altri, rafforza il contenuto dell’art. 3 riaffermando il principio di parità tra i detenuti quale che sia l’attività che viene svolta nell’ambito del trattamento penitenziario.
Con l’ingresso in carcere, infatti, il soggetto perde il ruolo sociale che prima aveva, viene privato dei suoi effetti personali, di uno spazio personale, della capacità di decidere autonomamente; perde il contatto quotidiano con la famiglia e con gli amici ed inizia a pensare a cosa accade loro mentre lui è lì. Nel caso delle detenute madri il peso della detenzione è, inoltre, aggravato dall’incommensurabile dolore causato dal distacco dai figli. Il detenuto vive rapporti sociali imposti, è espropriato da ogni riservatezza ed intimità e diventa dipendente dall’Istituzione; sperimenta la frustrazione, soprattutto delle aspettative e l’impotenza, si rifugia nel desiderio che le sue richieste vengano prese in considerazione. Possono quindi manifestarsi ansia da separazione, ansia reattiva da perdita e da crisi di identità.
Per quanto riguarda detenuti e internati si distinguono le sindromi reattive alla carcerazione, che presentano sintomi peculiari, non riscontrabili in altri ambienti, dalle psicosi vere e proprie (già esistenti nel soggetto) che l’esperienza della detenzione carceraria contribuisce, in certi casi, a far addirittura emergere, mentre in altri, concorre ad aggravare in termini di potenziale acutizzazione del disagio psichico.
Fermo restando l’obbligo di garantire a tutti determinate attività come lo studio, il lavoro, la formazione, l’amministrazione può diversificare l’offerta secondo la tipologia di detenuto, tenuto conto della sua storia personale e del reato commesso, e la sua disponibilità ad accettarla. È la logica dei circuiti differenziati, ovvero delle diverse risposte punitive e rieducative, espressamente previste dalla riforma. E tuttavia, a differenza dell’alta sicurezza, non esiste, nella prassi un circuito di media sicurezza destinato alla stragrande maggioranza dei detenuti non pericolosi, con regole standard che favoriscano il recupero dell’identità del condannato e il suo rapido reinserimento nella vita sociale. Questa è la custodia attenuata, ma l’amministrazione, finora, si è limitata a una sperimentazione: Bollate.
Circa il 50 % della popolazione penitenziaria è composta da imputati soggetti ad ordine di custodia cautelare in carcere, proprio per questo il legislatore non poteva ignorare le esigenze di tali soggetti tenendo congruamente conto della componente carceraria rappresentata dagli “imputati”, al fine di rispettarne la peculiarità di posizione giuridica.
La normativa del 1975 e quella successivamente emanata all’insegna di opposte filosofie della pena dettano, infatti, una disciplina base valida per i condannati e gli imputati, definendoli tout court “detenuti”, salvo di volta in volta precisare, con disposizioni ad hoc, se una determinata regola valga per una soltanto delle componenti della popolazione penitenziaria.
Nei confronti dell’imputato detenuto, invece, l’impegno nascente dai principi costituzionali non è quello della rieducazione, ma alla riduzione, per quanto possibile, delle occasioni e del protrarsi della custodia cautelare attraverso la previsione di divieti, limiti e controlli giurisdizionali sulle vicende di questa forma di restrizione della libertà personale, di cui fa riferimento l’art. 13 Cost., il quale sottolinea esplicitamente la carcerazione preventiva, risolvendo in tal modo ipotetici dubbi circa la costituzionalità di una disciplina che consenta la privazione della libertà prima che il processo si concluda con accertamento giudiziario della responsabilità.
Nei confronti dell’imputato detenuto, il quale, ai sensi dell’art. 1 comma 5 ord. penit., non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva, non è possibile predisporre un trattamento rieducativo che tenda al reinserimento sociale, come avviene, invece per detenuti ed internati. In ogni caso, però questi, come i detenuti e gli internati, è sottoposto al trattamento ordinario cui si vuole riferire il primo comma dell’art. 13 ord. penit., secondo il quale anche detto trattamento deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto.
Le ragioni di permanenza in carcere di un imputato sono da legarsi al pericolo di inquinamento delle prove e proprio per questo, è prevista la sua separazione da parte gli altri soggetti. Di essa fa espressa menzione l’art. 14 co. 3 ord. penit. il quale assicura la separazione degli imputati da condannati e internati, anche se, per ragioni di insufficienza di spazio dovuta alla carenza di strutture carcerarie e al sovraffollamento, è possibile che questa disposizione non venga sempre rispettata.
L’unica vera garanzia di separazione viene dalle indeclinabili esigenze giudiziarie: l’imputato per il quale l’autorità giudiziaria abbia disposto l’isolamento continuo rimane in tale stato secondo le modalità, i limiti e la durata indicate nel provvedimento.
L’isolamento giudiziario, avente chiara finalità di evitare l’inquinamento delle prove, è un quid pluris rispetto alla separazione tra le diverse figure di popolazione del carcere, prevista o imposta da un ordine dell’autorità giudiziaria, per gli imputati in uno stesso procedimento o comunque di uno stesso reato, in quanto diretto ad impedire ogni comunicazione non istituzionale all’interno dell’istituto e con l’esterno.
Sebbene l’imputato detenuto non può essere “rieducato”, si chiede però, allo stesso, un comportamento conforme alla disciplina e alle regole di vita penitenziaria.
L’imputato sia che risponda alle aspettative di remissività e disciplina, sia che demeriti, ad esempio incorrendo in sanzioni disciplinari che implicano anche la perdita dei benefici ricollegati, invece, alla regolare condotta, vede annotare, con scadenza semestrale, nella propria cartella personale il giudizio della direzione quanto all’impegno dimostrato nel trarre profitto dalle opportunità offertagli nel corso del trattamento e al mantenimento di corretti e costruttivi rapporti con gli operatori, con i compagni e la comunità esterna. Questa raccolta di dati costituirà, in caso di condanna, futura memoria.
Non dobbiamo dimenticare che l’imputato soggetto a custodia cautelare in carcere può essere affetto dalla c.d. sindrome da prisonizzazione, ed in particolare dalla sindrome di Ganser, che si caratterizza per gli elementi oniroidi ed allucinatori, a volte, anche simulati, ma che possono portare, col protrarsi del tempo alla cessazione spontanea del quadro, o, al contrario, ad un cronicizzazione del disturbo, e dalla sindrome di Wernicke, che presenta un tipico quadro di pseudo demenza caratterizzato da un deterioramento apparente, da una capacità di cogliere il mondo esterno in modo puntuale decisamente scarsa, da una facilità alla distrazione particolarmente accentuata, con cefalea e amnesia.
Al fine di diminuire l’impatto con il carcere è prevista l’offerta di interventi diretti a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali, in quanto compatibili con le esigenze cautelari. Inoltre, in base all’art. 15 ord. penit., gli imputati sono ammessi, a loro richiesta a partecipare ad attività educative, culturali e ricreative e, salvo giustificati motivi o contrarie disposizioni dell’autorità giudiziaria, a svolgere attività lavorativa o di formazione professionale, possibilmente di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla loro posizione giuridica.
Importanti sono le opportunità di contatto con gli operatori penitenziari e gli assistenti volontari, nonché la possibilità di incontro con i professionisti di cui all’art. 80 comma 4 ord. penit, quali ad esempio psicologi, alla ricerca dell’equilibrio psicologico compromesso o messo duramente alla prova dalla brusca e violenta emarginazione, le possibilità di essere agevolati nella volontà di proseguire studi interrotti dalla custodia cautelare, l’opportunità di potersi dedicare ad attività artigianali, intellettuali o artistiche e di svolgere un lavoro all’interno dell’istituto, nei limiti della disponibilità, anche a mantenere una certa continuità di guadagno e poter sopperire alle esigenze proprie e familiari.
Tutto ciò mira a non far chiudere l’imputato in se stesso, offrendogli una possibilità di contatto con le attività che si svolgono all’interno della struttura e con l’esterno, il tutto, limitatamente alle esigenze di custodia cautelare.
Alla luce delle brevi considerazioni svolte emerge come sia necessario distinguere fra le varie figure di soggetti ospiti delle strutture detentive, al fine di predisporre un adeguato trattamento per rispondere ai fini costituzionali sia del recupero e del reinserimento sociale di detenuti ed internati, sia delle esigenze di riduzione delle occasioni per il protrarsi della permanenza nell’istituto di pena.

BIBLIOGRAFIA:
• CASTELLANO, STASIO, Diritti e castighi, Milano, 2009.
• CORSO, Manuale della esecuzione penitenziaria, Bologna, 2006.
• GREVI, GIOSTRA, DELLA CASA, Ordinamento penitenziario commentato, Padova, 2011.
• GULOTTA, Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, Milano, 2002.

Angela Allegria
Febbraio 2013
In Nuove Frontiere del Diritto

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