24 Lug 2013

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L’errore giudiziario

L’errore giudiziario

1. “È errore giudiziario condannare una persona innocente. È errore giudiziario assolvere una persona colpevole”. Questa affermazione di Ferdinando Imposimato e Eraldo Stefani chiarisce in maniera semplice e succinta in cosa sussiste l’errore giudiziario, sottolineando come “la tranquillità che infonde una condanna, o un’assoluzione, se non supportata dalla verità, può diventare la più destabilizzante delle menzogne”.
Spesso nelle nostre aule di giustizia emerge una realtà, quella giudiziaria, che non coincide con la verità dei fatti. Ciò si ripercuote sulla attività del giudice il quale si trova innanzi a due realtà il più delle volte antitetiche: l’una processuale, fondata sulle prove e sugli indizi raccolti dagli inquirenti, e l’altra, storica, ossia realmente accaduta. Tale divergenza può essere originata da errori di testimoni nella percezione della realtà, dagli errori degli investigatori nella ricerca delle prove, dalla frode degli autori del delitto, da errori dei periti nella ricostruzione di un fatto storico attraverso le indagini tecniche, da errore del giudice nell’esercizio del metodo induttivo con il quale si risale da un fatto certo ad un fatto ignoto ritenuto probabile, dalla maggiore o minore capacità della Polizia giudiziaria o del Pm nella ricerca delle prove, dalla imparzialità o meno del giudice, dall’abilità e correttezza dei periti, dal giudizio della stampa.
Tutti questi errori, insieme o da soli, possono portare alla modificazione sostanziale e a volte definitiva della vita di una persona, al mancato rispetto del diritto alla verità da parte dei cittadini, all’aumento delle spese di giustizia.
Può, infatti, capitare, come è accaduto, che un giudice di pace chiamato a decidere su una controversia civile si dichiari incompetente per valore riguardo alla domanda riconvenzionale, ma che nel rimetterla al giudice superiore dimentichi di distinguere riguardo alla scissione della domanda e rimetta tutta la causa al tribunale il quale si dichiarerà incompetente per valore e così questi richiederà d’ufficio il regolamento di competenza. Il che comporta un allungamento considerevole di tempo e soprattutto lo scomodarsi della Corte di Cassazione per un errore che si sarebbe potuto evitare con maggiore solerzia.
Può anche accadere che un soggetto, il quale ha patteggiato una pena di mesi otto, pena sospesa, si trovi a doverla scontare per intero perché, nonostante l’accordo con il Pm sulla sospensione della pena, nel provvedimento emesso dal giudice manchi la menzione “pena sospesa”. In questo caso, nonostante l’intervento in Cassazione, con il parere favorevole del Procuratore Generale che ha riconosciuto l’errore materiale del giudice di primo grado, la Suprema Corte non ha corretto l’errore e per il condannato altra strada non rimane che riversare su una misura alternativa alla pena, sempre che vi siano i presupposti per la sua concessione.
Fatti di questo genere si verificano ogni giorno nelle nostre aule di giustizia, non è necessario che diano vita ad eventi eclatanti, essendo tanto delicata la funzione del magistrato giudicante da incidere sulla vita di un soggetto anche con provvedimenti o sviste all’apparenza innocue.
Ciò accade a motivo della molteplicità profilante dell’errore complessivamente connaturale alla condizione umana, dell’indagine procedimentale sulle prove che è soltanto ricostruttiva di un frammento del fatto avvenuto e non si protrare nel tempo, della decisione che deve essere adottata con tempestività onde non vanificare la sua ratio essendi, ovvero le esigenze per le quali si giudica.
Il magistrato giudicante e prima ancora l’inquirente, innanzi al delitto, ha come obiettivo quello di far emergere la realtà storica, affinché fra questa ed il giudizio finale vi sia quanta più coincidenza possibile.
L’aspetto drammatico del processo è nel fatto che il giudice, nel conflitto fra le due verità, è tenuto a seguire soltanto e semplicemente quella processuale, anche quando intuisce che essa contrasta con la verità reale, che non affiora nel processo, ma viene percepita intuitivamente e logicamente dal giudice.
Questa contraddizione può manifestarsi in due modi: nel primo, il giudice può avere la convinzione morale della colpevolezza della persona imputata nei confronti della quale manchino le prove, o queste non siano sufficienti e in questo caso, anche mediante l’esercizio dei poteri di integrazione probatoria ex art. 507, il giudizio non può essere che di assoluzione; nel secondo caso, questi può avere l’intima convinzione dell’innocenza di un soggetto, ma le prove processuali depongono contro di lui e in questo caso la condanna è “giusta” sul piano processuale perché conforme alle prove raccolte ma ingiusta su quello sostanziale.
Calamandrei sosteneva non potersi distinguere il processo e la giustizia ed affermava che “il peccato della scienza processuale è quello di aver separato il processo dal suo scopo sociale; di aver studiato il processo come un territorio chiuso, un luogo a sé, di aver creduto di poter creare intorno ad esso una specie di superbo isolamento staccandolo sempre più profondamente da tutti i legami col diritto sostanziale, da tutti i contatti con i problemi di sostanza, della giustizia insomma”.
“Forse – continuava – non diciamo la decadenza, ma il turbamento dei nostri studi, derivante da questo innaturale distacco tra il processo e la giustizia a cui esso deve servire, è cominciato il giorno in cui è stata affacciata la teoria del diritto astratto d’agire: da quando si è cominciato ad insegnare, e a costruirvi sopra bellissime teorie, che l’azione non serve a dar ragione a chi l’ha, che l’azione non è il diritto, spettante a chi ha ragione, di ottenere giustizia, ma semplicemente il diritto a ottenere una sentenza purchessia, un diritto vuoto, che è ugualmente soddisfatto anche se il giudice dà torto a chi ha ragione e ragione a chi ha torto”.
2. Tanti sono stati e continuano ad essere gli errori giudiziari che accadono ogni giorno. Sul sito errori giudiziari.com, il primo archivio su errori giudiziari e ingiusta detenzione, si contano 533 casi. Nel triennio 2004-2007 sono stati versati dallo Stato italiano 213 milioni a titolo di risarcimento, la cui somma più alta è stata di 4,6 milioni di euro percepita da Daniele Barillà. A questi dobbiamo aggiungere l’alto numero ogni anno di sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rimaste inapplicate. Una spesa davvero considerevole!
3. Fra i casi più eclatanti emblematico è il caso Gallo. Si trattò di un clamoroso errore giudiziario, che fece molto discutere. Salvatore Gallo era stato condannato per l’omicidio del fratello Paolo, il cui corpo non era stato trovato. Non c’è bisogno di trovare il cadavere aveva sentenziato la Corte di Cassazione il 19.5.1960. Un anno dopo i carabinieri trovarono Paolo vivo e vegeto. Salvatore poteva essere libero, ma forse aveva ferito il fratello. Come fare?
Sulla spinta emotiva di una vicenda del tutto nuova per la storia giudiziaria italiana, il Parlamento aveva nel frattempo provveduto a modificare il codice di procedura penale, ammettendo la revisione dei processi anche per i casi in cui “dopo una condanna per omicidio, sono sopravvenuti o si scoprono nuovi elementi di prova che rendono evidente che la morte della persona non si è verificata”; e aveva stabilito allo stesso tempo che le vittime degli errori giudiziari hanno diritto al risarcimento dei danni da parte dello Stato. Grazie a questa legge, alla fine di marzo del ’66 Salvatore Gallo ottenne la revisione del processo dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo che sentenziò che l’imputato non aveva ucciso il fratello, l’aveva solo aggredito. Salvatore Gallo venne condannato a 4 anni e mezzo di reclusione, (il fratello Paolo era stato assolto per insufficienza di prove dall’accusa di calunnia). La sentenza precisava che la pena deve considerarsi pienamente assorbita dai sette anni già trascorsi in carcere, ma l’essere stato riconosciuto comunque colpevole escludeva per Salvatore il diritto di richiedere il risarcimento.
4. Altro caso che ha fatto molto discutere è stato quello del mostro di Roma. Siamo nel 1924. Il terrore si diffuse fra la gente perché in giro c’era un mostro che violentava ed uccideva bambine molto piccole.
Emma, Armanda, Bianca, Rosina, Elisa di soli sei mesi, Celeste, Elvira: i nomi delle piccole vittime. In un primo tempo si pensò che il mostro fosse un vetturino un po’ scapestrato che fu vessato dai colleghi fino a quando non gli venne il dubbio di essere lui stesso l’autore di quegli atroci delitti e in un momento di sconforto si suicidò.
Ma gli omicidi non erano cessati. Il 25 novembre 1924 il mostro tornò in scena uccidendo Rosina, il cui corpicino fu ritrovato a Monte Mario in una fornace di mattoni con accanto un asciugamano con le lettere gotiche “R.L.”. Il panico aumentava e Mussolini in persona scese in campo per assicurare alla giustizia quella belva efferata. Per tutta risposta il mostro strangolò la piccola Elisa e lì accanto fece ritrovare un fazzoletto con la lettera gotica “C” e alcuni pezzi di una lettera scritta in inglese.
Di questi e di altri delitti, come della morte di Armanda accanto al cui corpo fu trovato bruciato un catalogo di libri ascetici in lingua inglese,fu accusato Gino Girolimoni, riconosciuto da un oste che fornì un particolare: il Girolimoni, che qualche giorno prima era stato visto in osteria con una bambina, aveva un piccolo frungolo che tamponava con un fazzoletto.
Per il regime il colpevole era lui, Gino Girolimoni, era lui il mostro di Roma. A nulla valsero le altre testimonianze, né che il vero soggetto che era stato visto in osteria in realtà era un signore con la sua bambina che lo dichiarò alle forze dell’ordine mostrando anche la cicatrice del frungolo.
Per il regime l’importante era avere un colpevole. E stranamente con l’arresto di Girolimoni i delitti di bambine finirono, almeno a Roma.
Girolimoni fu rilasciato tanti anni dopo in punta di piedi, nel pieno silenzio, quasi a farlo scappare senza clamore. Il vero mostro rimase sempre nell’ombra: si trattava di Ralph Lyonel (R.L.) Brydges, pastore nella Holy Trinity Church in via Romagna a Roma, morto in un manicomio in Sudafrica. Era uno dei tre che a Roma riceveva il catalogo in lingua inglese delle pubblicazioni religiose e che, in qualsiasi posto veniva trasferito dai suoi superiori, dopo le preghiere e i mea culpa se ne andava in giro a violentare e strangolare bambine.
5. Un caso che coinvolse un giovane ventiquattrenne è quello avvenuto a Cagliari nel 1985. Il 23 dicembre di quell’anno durante una rapina in un supermercato venne ucciso il titolare, Giovanni Battista Pinna. Dell’omicidio fu accusato Aldo Scardella che viveva a pochi passi dal supermercato. Sulla strada che conduceva dal negozio all’abitazione fu trovato il passamontagna di uno dei rapinatori, indizio questo che gli inquirenti e il Tribunale della Libertà ritennero inchiodante, nonostante il guanto di paraffina e la prova di annusamento sul passamontagna risultassero negativi. Tenuto in isolamento, tanto che il primo incontro con i familiari risale al 10 aprile 1986 dopo quattro mesi dall’arresto, mentre non ci fu mai l’incontro con il suo difensore, il 2 luglio 1986 Aldo fu trovato impiccato in cella nel carcere di Buoncammino di Cagliari. L’autopsia riscontrò la presenza di metadone, non presente in nessuna cartella clinica e sempre smentito dai familiari.
Solo nel 2002 furono condannati i veri autori della rapina, Walter Camba e Adriano Peddio mentre Aldo fu riconosciuto totalmente estraneo ai fatti.
6. Il risarcimento è stato negato a Luciano Rapotez, ex partigiano friulano di 35 anni, che nel 1955 fu arrestato con l’accusa di rapina e omicidio nei confronti dell’orefice Giulio Trevisan, della sua fidanzata Lidia Ravasini e di una cameriera. Per tre giorni, Luciano venne sottoposto a torture di ogni genere: bastonate su tutto il corpo, soffocamento, scosse elettriche, digiuno forzato. Il commissario Giovanni Grappone, capo della squadra mobile, lo costrinse con la violenza a firmare una confessione già scritta: un’ammissione che avrebbe consentito di chiudere le indagini sulla strage, dopo nove anni senza risultati, ma soprattutto di infliggere un duro colpo al Partito comunista locale, di cui Rapotez era militante. Portato in isolamento vi restò per tre mesi, ben oltre i 52 giorni previsti dalla legge come massimo.
Durante il processo, Rapotez ritratta e racconta delle torture. Solo il 30 agosto 1957, dopo 34 mesi di carcerazione preventiva, l’ex partigiano viene assolto per insufficienza di prove e rimesso in libertà. Con lui, gli altri quattro uomini accusati del triplice omicidio del ’46. Intanto la moglie lo ha abbandonato, il tribunale gli nega l’affidamento dei figli (che la donna ha fatto andare in collegio) e Rapotez – che ha perso anche il lavoro – emigra in Germania.
La sentenza viene confermata definitivamente dalla Suprema Corte nel 1962. Restava il problema del risarcimento, che ad oggi, nonostante ogni tipo di ricorso, anche alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non è mai arrivato.
La domanda risarcitoria viene rigettata e Rapotez è condannato al pagamento delle spese di giudizio. Ancora una volta, la legittimità della richiesta di risarcimento viene riconosciuta, (“…l’obiettiva ingiustizia sofferta dal Rapotez… la carcerazione subita innocentemente…”), ma l’istanza non potrà mai essere accolta.
7. “Non importa se sei stato tu, se sei colpevole o innocente, se ricordi dove hai passato quella notte maledetta in cui due ragazzi venivano ammazzati senza pietà. Non importa chi sei né come ti chiami, devi solo rispondere alle domande. Non sei nemmeno il prigioniero di qualche esercito, non hai un’ideologia o una bandiera a cui aggrapparti fiero. Sei solo un ragazzo e i volti che vedi sono lo Stato” racconta Giuseppe Gulotta: aveva 18 anni quando fu accusato dell’omicidio di due carabinieri. Lui era innocente, ma per questa accusa ha scontato 22 anni di carcere. “Perché io, innocente, dovevo pagare per colpe che non avevo commesso? La mia condanna serviva a restituire la pace a tanta gente: ai due carabinieri uccisi, ai loro colleghi che li dovevano vendicare e a quelli che, pur sapendo o intuendo la verità, dovevano trovare un falso colpevole. Il colpevole falso ero io, io dovevo pacificare i patti e i ricatti, i segreti e le menzogne. Tante persone hanno giocato con la mia vita. Tante altre però mi sono state vicine.” È stato assolto dopo 36 anni.
8. Errori che si tramutano in orrori, in tragedie vissute da chi è innocente, ma anche di una falsa verità che tutti i cittadini e lo Stato stesso riescono ad ottenere come contentino, come premio per sedare gli animi.
Una svolta è necessaria per adeguare la verità processuale alla realtà dei fatti e per fare veramente Giustizia.
In Texas, ad esempio, il governatore ha ratificato il Michael Morton Act, una legge intesa a ridurre il rischio di errori giudiziari. consentirà ai difensori di avere accesso a tutti gli atti afferenti al processo,compresi gli interrogatori di polizia e le testimonianze raccolte durante le indagini.
La legge prende il nome da Michael Morton, condannato all’ergastolo nel 1987 per l’omicidio della moglie, e scarcerato, dopo il completo proscioglimento, 25 anni più tardi, nel 2011, grazie a nuovi test del Dna. Dalla rilettura degli atti si era capito che già all’epoca del processo la pubblica accusa era in possesso di elementi che escludevano la colpevolezza di Morton.
Questi sono solo una minima parte degli errori che sono accaduti e continuano ad accadere nelle aule di giustizia.
Errori del genere fanno dubitare del vero senso della Giustizia, del ruolo di garante dello Stato e mettono in dubbio tutta l’opera sia degli investigatori che dei magistrati.
Vogliamo ancora che un innocente paghi per ciò che non ha fatto e che, di converso, i veri autori la facciano franca? È importante riflettere e, magari approfondire di più, anche con il supporto di nuove leggi, per avvicinare quanto più possibile la verità processuale a quella dei fatti.
È compito del legislatore, in aderenza ai principi fondamentali rispettosi dei diritti umani, predisporre le regole, valide in qualunque tempo e sotto qualunque aspetto, del giusto processo.
Infatti, il compito del giudice non è quello di perseguire il bene comune ma di applicare la legge come comando, qualunque ne sia il contenuto. Di converso, non è permesso al giudice di disapplicare la legge, anche se gli pare ingiusta.
Bibliografia:
• CALAMANDREI, Processo e Giustizia, in Riv. dir. proc., 1950, I, pp. 278-279.
• CERAMI, Il mostro di Roma, in Il Messaggero, 12.10.2008.
• GULOTTA-BIONDO, Alkamar. La mia vita in carcere da innocente, Milano, 2013.
• IMPOSIMATO, L’errore giudiziario, Milano, 2009.
• LATTANZI-MAIMONE, Cento volte ingiustizia – Innocenti in manette, Milano, 1996.
• SANTANGELO, La riparazione per l’ingiusta detenzione, in Giurisprudenza di Merito, 2001, f. 6, pp. 1499 e ss.

Angela Allegria
Maggio 2013
In Nuove Frontiere del Diritto

  1. La complessità che moltiplica le verità autentiche, crea inevitabilmente la possibilità dell’errore giudiziario. é per questo che una repubblica nel suo formarsi decide di essere “garantista”. L’imputato è innocente fino a prova contraria.
    E non colpevole…”

    Ciò nonostante gli “orrori” giudiziari ci sono. E viene anche da essere cinici. “Ce nesaranno sempre”, ma anche reattivi, e noi combatteremo con ogni mezzo!

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