30 Dic 2009

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Il teatro di Giulio Cavalli

Il teatro di Giulio Cavalli

“Oggi noi narratori abbiamo la grande occasione di metterci in rete con tutto quel giornalismo non normalizzato che si è definito e ha preso coscienza del proprio ruolo e diventare l’uno per l’altro strumenti di amplificazione e affilatori di contenuti” scrive sul suo sito Giulio Cavalli, l’attore teatrale a cui è stata assegnata la scorta per il suo impegno contro la mafia. Ma sarebbe riduttivo descrivere Giulio Cavalli in questo modo, Giulio è un giovane che crede nella idea di teatro civile, che, come si legge dalle sue poche parole, assume un ruolo sociale ben determinato, si prende la responsabilità di far conoscere la realtà dei fatti mettendoli in scena e mostrandoli al pubblico per quello che sono, senza credere che tutto ciò che appare in realtà è.

Fra i tanti temi affrontati, il disastro di Linate, scritto insieme ai familiari delle vittime, l’infiltrazione della mafia al Nord, quindi una visione omogenea delle mafie, non intese come fenomeno strettamente regionale, localizzato, bensì diffuso su scala nazionale (ed internazionale).

Un’idea di teatro “diverso”, sperimentato, messo in scena da un attore sui generis, un ruolo che non si riduce all’interpretazione di un copione, ma che riscopre il valore originario del teatro, a partire dalle tragedie greche le quali si ispiravano a situazioni, eventi realmente accaduti, li proponevano allo spettatore accentuandone gli aspetti e sottendendo un messaggio didascalico.

Ma parliamone direttamente con lui…

D: Giulio, quale è la Tua idea di teatro?

R: Vedo il teatro come un luogo, una agorà ancora autentica dove possono galleggiare storie con una profondità e una potenza tattile. Lo ripeto spesso: questo nostro privilegio di una piazza ed un pubblico che non ci incrocia ma addirittura ci viene a cercare credo debba essere onorato con tutte quelle storie che su un palcoscenico possono respirare e dignitosamente gocciolare in tutta la loro umanità e con un’analisi importante.

D: Cosa è il “Teatro civile” o come meglio lo definisce “Teatro partigiano”? Che fini segue?

R: Non promettersi soltanto di esercitare la memoria nella sua sfumatura celebrativa dei funerali laici. Essere partigiani significa dichiarare onestamente da che parte si decide di stare e quindi inevitabilmente con chi ma anche senza remore contro chi. Per quanto riguarda il “teatro civile” credo fondamentalmente che sia un grande bluff. Esiste un giornalismo “civile”? una magistratura “civile” un’opera musicale “civile”? No. Esiste un avanspettacolo più o meno artefatto, ludico e significativo. E poi esiste il teatro.

D: Nei tuoi spettacoli parli di riti e conviti della tradizione mafiosa, della penetrazione della mafia al nord, in particolare a Milano, della Resistenza, del disastro di Linate: la memoria, il ricordo, ma anche la lucidità di guardare con occhi diversi, di capire la realtà dei fatti. In che modo scrivi i testi dei Tuoi spettacoli ed in che misura riesci a far sì che questi colpiscano la coscienza degli spettatori?

R: Parto dalle parole, l’esperienza e la collaborazione di chi ha nuotato per motivi diversi in quelle storie. Chi le ha indagate e processate, chi le ha descritte prima di me, senza dimenticare tutti quelli che ci sono capitati dentro per motivi diversi. Il mio lavoro (con i ritmi e i modi dell’artigiano) è appoggiarle in scena in un modo dignitosamente drammaturgico e scenico. Se riusciamo ad aggiungere all’analisi e all’informazione intellettualmente onesta il potere della parola e della scena è inevitabile che si arrivi ai cuori. Il pubblico teatrale è fisicamente e mentalmente vicinissimo ad un attore; quindi inevitabilmente predisposto ad annusarne l’autenticità.

D: Da dove nasce l’idea di Radio Mafiopoli? Il riferimento è a Peppino Impastato e se si per quale motivo?

R: Dopo l’esperienza dello spettacolo DO UT DES (in cui giocavamo a disonorare l’onore mafioso) abbiamo pensato che lo sberleffo meritasse una platea e una fruibilità che non fosse legata ai limiti tecnici e logistici che comporta una tournée; la rete era il luogo più adatto per riproporre il “modus” con un appuntamento settimanale. È chiaro che Radio Mafiopoli nasce dalla lezione della risata velenosa di Peppino soprattutto con due obbiettivi: smontare un finto onore che è banalmente la metastasi della paura e raccontare come sia una bugia improbabile e tragicamente comica che questi boss possano veramente (da soli) avere tenuto sotto scacco una nazione.

D: L’improvvisazione, la battuta, la musica dal vivo, la presa di posizione innanzi agli eventi storici contemporanei: che peso hanno all’interno dei tuoi spettacoli?

R: Io recito molto poco. Parlo. Probabilmente sono anche un pessimo attore e niente di più che un buon parlatore. Quindi cogliere il momento è l’elemento fondamentale per un dialogo. Di parola e di ascolto.

D: Da poco Ti è stata assegnata la scorta, segno che con la Tua attività dà fastidio alla criminalità organizzata. Non hai paura?

R: La scorta è un effetto. Credo debba essere poco una notizia. Piuttosto che agli effetti mi dedico alle cause, nel mio piccolo, come posso. È sconsolante immaginare un paese che dà più credito ad alcune parole solo perché condite con la scorta secondo i meccanismi voyeuristici di questa caccia agli intimiditi più mediaticamente spendibili e intanto lascia scoperti e soli i testimoni di giustizia. Se ho paura o non ho paura me lo conservo gelosamente come un lato mio della mia storia; ed è una storia che non mi interessa raccontare. L’urgenza è svelare la mediocrità delle mafie e la colpa folle del profondo nord di non accorgersi di esserne diventata la culla finanziaria.

D: In che modo continuerai la tua attività? Progetti in corso e futuri?

R: Un libro (Nomi, cognomi e infami), uno spettacolo su una prescrizione giudiziaria che non merita di essere prescritta anche nella memoria e quello che mi capita: che ultimamente è molto più teatrale di quanto io riesca a progettare.

Angela Allegria

28 dicembre 2009
In www.italinotizie.it

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