2 Nov 2010

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A Modica una donna coraggio che ha detto no al pizzo

A Modica una donna coraggio che ha detto no al pizzo

Siamo agli inizi degli anni Novanta e nel ragusano è in atto lo scontro fra il clan Carbonaro Dominante di Vittoria ed i Ruggero di Scicli. C’è da spartirsi le zone per il pizzo e al centro delle ambizioni si trova Modica, città ricca e tranquilla.
“Lì nasce l’associazione grazie ad un gruppo coeso. Io ho lanciato l’allarme e poi abbiamo contattato Tano Grasso. È stato l’inverno successivo all’uccisione di Libero Grassi. Tano ci ha dato consigli, ci ha indirizzato. All’inizio non capivamo come agire ma poi, incontrandoci, condividendo, abbiamo capito la strada”. A parlare è Patrizia Terranova, commerciante modicana e fondatrice dell’azione antiracket della città della contea.

D: Come è cominciato il tuo impegno contro il pizzo?

R: Uno dei primi casi di estorsione in questa zona fu quando si presentarono al mobilificio di mio padre alcuni vittoriesi. Mio padre non ne volle sapere, li chiuse dentro e chiamò la polizia. È comica questa storia perché rischiava di essere arrestato per sequestro di persona! Da lì cominciai a ribellarmi e diedi l’allarme. In effetti l’allarme lanciato non era campato in aria perché si sono verificati più casi. E grazie all’unità ci sono stati più casi di commercianti che hanno detto di no al pizzo mentre i mafiosi sono stati arrestati. In quei giorni sono nate le associazioni di Modica e poi quelle di Vittoria e Scicli.

D: Nel 1995 sei stata minacciata

R: Una domenica mattina abbiamo trovato un cartello sulla serranda del negozio nel quale era raffigurato un teschio e una minaccia. Prima di questo c’erano già stati altri segnali: l’incendio dell’auto, la collocazione di cani sgozzati appesi alla saracinesca del negozio, l’uccisione in ben due volte distinte i tanti gatti che avevamo in campagna, le lettere anonime indirizzate a me contenenti a volte anche proiettili, le strane consegne di bombole di gas o di pizze mai ordinate. Segnali che a prima vista sembravano strani, che non capivo, ma che solo dopo, parlando con il capo della mobile, Giuseppe Bellassai, mi furono spiegati.

D: Come ha reagito innanzi alle minacce?

R: Sarà stata l’irresponsabilità (avevo 33 anni), la follia, non lo so, ma con le minacce ottenevano l’effetto opposto. La mia unica paura era per mia figlia che aveva 13 anni. Io mi rendevo conto che non sarei stata toccata appunto perché in quel momento ero al centro della lotta, impegnata fra riunioni antimafia, iniziative, nascita di nuove associazioni e se loro mi avessero toccato sarebbe successo un inferno. Però avrebbero potuto farmi desistere toccando mia figlia: questa era la mia unica, grande e vera paura. Mi fu assegnata la vigilanza, più che altro un segnale dato dal Questore Vella di Ragusa, per far capire che non ero da sola, ma in realtà se avessero voluto ammazzarmi potevano farlo comunque perché invece che ad uno sparano a cinque.

D: Quanto ti limitava il fatto di avere una scorta?

R: Io sono una persona essenzialmente libera nei movimenti. Si, era limitante in questo senso, ma anche per il fatto che se io andavo con loro in macchina nessuno della mia famiglia poteva salire con me, ma poi, dato che le persone erano sempre le stesse, si è creato un rapporto di amicizia tale da considerarli persone di famiglia e questo è dovuto al fatto che gli agenti facevano il loro lavoro con affetto e con dedizione. Ancora oggi questo legame è rimasto.

D: Quante volte ti sei sentita dire “Ma chi te lo fa fare”?

R: Migliaia di volte e non ho mai saputo rispondere o forse si. Era una cosa in cui credevo e per questo sapevo che bisognava andare avanti. Vi racconto un aneddoto. Da bambina per punizione sono stata mandata a scuola dalle suore perché ero un po’ “rivoluzionaria”. Già da allora credevo nell’uguaglianza, nella parità dei diritti, se avevo una cosa sapevo che bisognava dividerla con gli altri. Il giorno del mio ottavo compleanno la mia tata mi portò dalle sue per pranzo il pollo con le patatine e i bignè alla crema. Ovviamente era stato preparato anche per le mie compagne con le quali pranzavo di solito, ma appena tiro fuori il pollo con le patate, la suora mi dice che il pranzo era stato portato per me sola, non per le altre. Ho avuto solo un attimo di ripensamento, ho chiuso tutto, ho rimesso tutto nella borsa e ho mangiato la stessa cosa che hanno mangiato gli altri. Le suore hanno poi detto ai miei genitori che ero una “rivoluzionaria” ed avevano ragione, non sono mai stata una persona che si assuefà alle idee degli altri.
La stessa cosa è stata con l’antiracket. Mi sono fatta un mare di nemici, sono stata definita poco affidabile, la gente aveva paura ad entrare nel mio negozio. Ho creato io stessa un certo isolamento per non mettere in imbarazzo gli altri quando ho capito che la mia era una presenza ingombrante. Però ho continuato.

D: E tua figlia come viveva questa situazione?

R: Mia figlia la viveva nella normalità. A volte mi diceva che aveva una mamma matta ma scherzosamente. L’altra sera avevamo una discussione sugli effetti delle proprie azioni e mi ha detto “A 33 anni non puoi dirmi che devo adeguarmi dopo che mi hai cresciuto dicendomi che bisogna portare avanti le proprie idee”.

Carla allora aveva 13 anni, veniva con me in tutte le manifestazioni, come ad esempio la riapertura della fabbrica di Libero Grassi o la visita all’albero di Falcone. Chiaramente da bambina è cresciuta in quell’ambiente per cui per lei era normale.

D: Quale il ricordo più bello che ha di quei giorni?

R: La cosa più bella quando venivano per un problema e poi si trovava una soluzione, questa era la vera felicità. Quando non riuscivo a trovare la chiave per sbloccare la situazione la notte non dormivo, somatizzavo la loro storia soprattutto quando si trattava di usura. Perché nei casi di estorsione si convinceva il commerciante a fare la denuncia, mentre nell’usura il meccanismo era più complicato perché entravano all’interno della famiglia e così ad ogni chiamata fuori orario sapevo quanto fosse forte la mia responsabilità.
Un altro momento bellissimo è stato il giorno della riapertura dalla segheria di Sgarlata a Scicli, soprattutto il ritrovarsi insieme per far sentire la nostra presenza, come a Gela durante la morte del gioielliere Giordano.

D: Come vedi la situazione attuale in provincia?

R: Il Presidente Napolitano quando era Ministro dell’Interno è venuto a Ragusa ed ha incontrato noi dell’associazione. Lui sosteneva da studi. Da report che la nostra provincia è la lavanderia. Oggi si sbarca il lunario per sopravvivere e poi di contro vedi cose grandi, esagerate, enormi a persone a cui non appartengono . Io ho paura della calma di adesso in provincia anche perché siamo in un periodo in cui accorrono grandi flussi di denaro. È strano che ci siano questi investimenti e non ci sia la mafia. Allora le cose sono due: o siamo la lavanderia o c’è un equilibrio nella partizione di questi flussi.

Angela Allegria – Giorgio Ruta
Ottobre 2010
In Il clandestino con permesso di soggiorno

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