20 Giu 2011

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Una storia d’altri tempi

Una storia d’altri tempi

Rosalia era nata in un paesino nell’entroterra siciliano in provincia di Catania, in piena epoca fascista, quando, come ripeteva sempre sua madre, “si putia rormiri che potti apierti”, era possibile dormire con le porte aperte.
E proprio una calda sera di agosto, mentre le porte delle case erano aperte e la gente era solita sedersi in strada per scambiare qualche chiacchiera e per raccontare gli ultimi pettegolezzi che facevano da intercalare alla recita del rosario, venne alla luce Rosalia, piccola e nera, già con tanti capelli in capo.
Sarebbe stata la prima di undici figli, sette femmine e quattro maschi.
La sua famiglia era molto povera. Il padre lavorava a stagione, andando a spigolare o raccogliendo mandorle, olive e carrube, ma spendeva i pochi soldi che guadagnava all’osteria trasformandoli in vino con il quale si risollevava dalla fatica. La  madre faceva la lavandaia per i signori del paese, stava tutti i giorni con le mani nell’acqua, estate ed inverno, e, a volte, portava a casa anche qualche pezzo di pane o un po’ di frutta che qualche nobile le regalava per i bambini.
Appena la bambina fu capace di badare a se stessa fu mandata dalla sarta per apprendere un mestiere, ma per quanto si impegnasse, non riusciva a realizzare nulla, anzi, il più delle volte combinava guai e si sa, in tempo di guerra, mettere in mano ad un’adolescente, anche se ormai da anni in bottega, una forbice per tagliare un abito era rischioso, soprattutto se poi la padrona di bottega doveva riparare il danno risarcendolo ai clienti.
Così, mentre in un primo tempo, come era già accaduto, la sarta diede a Rosalia il compito di fare le consegne, quando la fame si fece sentire di più, fu costretta a mandarla a casa.
La guerra stava per finire, ma nella famiglia di Rosalia non importava, tanto, guerra o non guerra, fascisti o americani, la cosa fondamentale stava nel tirare avanti, con quel poco che si riusciva a racimolare.
In inverno la situazione era davvero tragica perché i bambini, seppur stretti stretti nei letti per ripararsi dal freddo e per questioni di spazio, non avevano coperte e venivano protetti dalla madre con l’unica cosa davvero preziosa che la famiglia possedeva: il cappotto di soldato del padre.
Ma anche per quello, che sembrava una manna caduta dal cielo, bisognava aspettare il proprio turno.
A mano a mano che i figli più piccoli si addormentavano la madre passava il cappotto agli altri per prenderlo infine lei e riscaldarsi insieme al marito.
D’estate, invece, il caldo afoso era insopportabile e, nella minuscola stanza all’interno della quale dormiva tutta la famiglia, asino compreso, fra zanzare e calura ci si addormentava solo perché fiaccati dalla fatica del lavoro.
Un giorno, ormai Rosalia aveva sedici anni, la madre comunicò alla famiglia una buona notizia: la ragazza era stata assunta come donna di servizio presso la famiglia della marchesa Tecla di Falchetto.
Avrebbe vissuto a palazzo, sette giorni su sette, stipendiata, con tanto di vitto e alloggio garantiti.
Alla ragazza con pareva vero di poter lavorare e dare una mano alla sua famiglia.
Riconoscente alla marchesa per la grande opportunità che le offriva, Rosalia non smetteva di ripetere “Voscenza grazie”, “Vostra eccellenza grazie”. E quando, dopo il primo giorno di lavoro, trovò nella sua stanza in soffitta una vera coperta, quasi pianse di gioia.
Il lavoro era pesante, ma la marchesa, seppure apparentemente autoritaria, era una brava persona e faceva a Rosalia parecchi regali, vestiti e scarpe.
Inoltre, poiché la ragazza non era mai andata a scuola, diede ordine che le si insegnasse a copiare la propria firma e a fare qualche rapido calcolo finalizzato a non farsi fregare i soldi di resto quando andava a fare la spesa.
Durante le elezioni, il marchese Prospero convocava tutta la servitù e, descrivendo accuratamente il simbolo da tracciare, impartiva le sue istruzioni di voto.
I domestici e le donne di servizio seguivano fedelmente le istruzioni del “padrone”, rispondendo “tanto uno vale altro, è il marchese che ci dà il pane”.
Rosalia, inoltre, nutriva un rispetto particolare per la marchesa e non avrebbe fatto mai nulla che le potesse far dispiacere.
Quando il marchese Prospero morì, titolo e proprietà passarono al figlio Liborio, tipo taciturno, bonario, accondiscendete, tutto il contrario della moglie. Altezzosa, estrosa, bizzarra, dai gusti raffinati e l’aria di chi è sempre sdegnato, donna Clelia veniva omaggiata anche lei dai lavoranti con l’appellativo di “Voscenza”.
La marchesa Clelia apparteneva anche lei alla nobiltà terriera siciliana, aveva studiato, andava a teatro a Catania, organizzava feste e ricevimenti, invitava le amiche per il tè, trattava tutti, marito compreso, con aria di superiorità e di disgusto.
I primi mesi di lavoro con la nuova marchesa furono davvero terribili nella casa perché la nuora, seppur non ribattesse alle critiche della suocera, in privato urlava contro il marito, lamentandosi ed insultandolo abbondantemente, conscia del fatto che questi non avrebbe reagito, come faceva sempre.
Ma si sa, i domestici ascoltando le urla ne proiettano l’eco in tutto il paese, cosicché tutti supponevano, anzi, ne avevano certezza che alla morte della marchesa madre, il potere della nuora sarebbe stato incontrastato. E così fu.
Morta donna Tecla, i parenti di Liborio rimasero a Ramacca giusto i giorni del lutto, mal sopportando l’altezzosità della nuova padrona di casa.
Per Rosalia cominciò un difficile periodo.
Trattata con eccessivo distacco dalla nuova marchesa che cercava ogni scusa per licenziarla in quanto la considerava ancora una imposizione della suocera, Rosalia lavorava sodo, puliva, spazzava, faceva la spesa, trasportava carichi pesanti, vigilava sui muratori e su coloro che raccoglievano le olive, faceva brillare le scale che portavano al piano superiore del palazzo, accompagnava la marchesa a messa seguendola ad almeno dieci passi di distanza.
Quando gli amici della signora organizzavano pranzi o cene chiedevano che fosse condotta anche Rosalia.
Così questi si preparava, indossava l’abito della domenica, legava a modo i riccioli corvini, lavava ben bene gli occhiali ed era pronta con almeno due ore di anticipo.
Ogni volta però, dopo aver salutato i padroni di casa, veniva condotta in cucina per dare una mano a servire le portare, lavare i piatti e riporre con cura le stoviglie a fine serata.
La delusione che ogni volta si manifestava sul volto di Rosalia veniva raramente compensata con qualche moneta, mentre, più spesso, la padrona di casa la ringraziava permettendole di prendere  una fettina di dolce o un savoiardo.
A carnevale, periodo nel quale il club dei nobili organizzava una grande festa in maschera, Rosalia aiutava la marchesa a prepararsi, le acconciava i capelli, si divertiva nel vederle indossare quegli abiti tanto buffi. Poi l’accompagnava all’ingresso del teatro, cercando di sbirciare i costumi degli altri nobili.
La sera, quando aiutava donna Clelia a cambiarsi, si faceva raccontare tutto della festa ed immaginava come gli amici della signora si fossero travestiti.
Di quei poveri ricchi Rosalia conosceva vita, morte e miracoli e ad alcuni di loro voleva anche bene, considerandoli come una grande famiglia, illudendosi di essere ricambiata.
Ma in fin del conti di affetto Rosalia, escluso quello materno e quello  di donna Tecla che l’aveva presa a buon volere, non ne aveva avuto molto. Le sorelle, infatti, l’accusavano di considerarsi una nobile e di trascurarle, anche se Rosalia non mancava mai di andarle a trovare, né di preparare per loro e per i loro figli un pensiero per i rispettivi compleanni.
Intanto il tempo passava fra lavoro sodo, messe e qualche libera uscita e Rosalia non prendeva marito, vuoi perché un po’ bruttina, vuoi perché appena qualcuno le metteva gli occhi addosso la marchesa lo faceva dissuadere dall’impresa con vari pretesti, conscia del fatto che la fiducia ed il basso stipendio della donna non si trovavano più sul mercato.
Con il passare del tempo il marchese Liborio decide di accordare a Rosalia il permesso di guardare la processione del Santo Patrono, San Giuseppe, da un balcone basso del palazzo, lontano da quello principale sul quale stavano i nobili, ma da cui si vedeva molto bene la festa.
Quando Rosalia fu in età di andare in pensione, il marchese le acquistò una simpatica casetta poco distante dal palazzo, la fece ristrutturare e, su consiglio della moglie, la arredò.
Nonostante il meritato riposo l’accordo inteso fra marchesa e Rosalia rimaneva: questi doveva restare in servizio fin quando fosse stata in salute.
Su questo non si obiettò, anzi, Rosalia era contenta perché da sola non sapeva cosa fare, abituata da sempre ad eseguire ordini e a non prendere mai una decisione autonomamente.
Il giorno dopo che il marchese Liborio passò a miglior vita donna Clelia la chiamò, le disse che finito il lutto poteva andare a casa sua.
Rosalia chiese il motivo di una tale scelta, insistette per rimanere, ma la marchesa fu risoluta.
Nonostante ciò, ogni mattina la ormai anziana donna, passava dall’ex padrona per chiederle se avesse bisogno di qualcosa e l’accompagnava al cimitero sorreggendole i fiori e sistemandoli in un vaso, per onorare quei morti che, in fin dei conti, erano anche la sua famiglia.
Fece ciò fin quando potè camminare, poi, ammalatasi, visse tre giorni senza mangiare e senza bere e morì, da sola.
Le sorelle, i fratelli superstiti ed i nipoti litigarono per non si sa quanto tempo per dividersi la casa ed i pochi risparmi che la zia aveva accumulato in una vita di lavoro, privandosi di tutto. Ma nessuno di loro fu capace di portare sulla tomba della parente un solo fiore.
Alla marchesa Clelia, ormai novantenne, non rimase che il ricordo di una presenza che, seppur imposta, ormai era diventata di famiglia e, rimasta sola, passava le giornate a paragonare il lavoro della nuova governante con quello di Rosalia lodandone le qualità.

Angela Allegria
18 giugno 2011
In Ewriters

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