20 Nov 2013

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Il manicomio può risorgere se non manteniamo alta la sorveglianza civile e democratica

Il manicomio può risorgere se non manteniamo alta la sorveglianza civile e democratica

Al fine di comprendere meglio lo spirito della riforma Basaglia, le ragioni che hanno portato a tale cambiamento e le applicazioni che ancora oggi sono presenti nel mondo della Psichiatria italiana e non solo, abbiamo chiesto dei chiarimenti a chi ha lavorato con Franco Basaglia e in particolare al prof. Roberto Mezzina, già direttore del Dipartimento di Salute Mentale triestino e responsabile di una delle sue aree territoriali, cofondatore dell’International Mental Health Collaborating Network, attualmente coordinatore e responsabile del Centro Collaboratore dell’OMS di Trieste.

A distanza di 35 anni la riforma Basaglia è ricca di luci ed ombre. Perché?

La legge di riforma n. 180 del 1978, che poi è stata incorporata nella legge 833 di riforma sanitaria promulgata lo stesso anno, ha costituito il coronamento di un processo di trasformazione delle pratiche e delle modalità di approccio al disturbo mentale in Italia, fondato sulla critica dei manicomi e volta alla trasformazione e al superamento di queste istituzioni. La legge è arrivata a sancire quello che era stato ottenuto da un movimento che aveva già modificato in dieci e più ospedali psichiatrici italiani le pratiche terapeutiche, aprendo le porte, abolendo i mezzi di contenzione, mettendo le persone, ricostituite nel loro status di soggetti titolari di diritti, in condizione di essere in rapporto fra di loro e con la città, cercando di rispondere ai loro bisogni sociali e di curarle in maniera diversa sul territorio. Si è trattato quindi di una riforma che ha innovato dal punto di vista delle pratiche e si è poi trasformata in un cambiamento a livello normativo, che l’ha estesa universalmente. Benché cristallina dal punto di vista legislativo, si trattava di una legge quadro la cui attuazione spettava alle regioni che si sono comportate in modo molto diverso: alcune sono state molto brillanti, come il Friuli Venezia Giulia, altre meno nella loro modalità di applicazione della legge, che doveva essere implementata tramite leggi regionali e atti come il Piano sanitario nazionale che si sono poi realizzati solo molto più tardi. Non c’è stato un adeguato accompagnamento di questo processo negli atti legislativi e di politica sanitaria e questo ha comportato un rallentamento nel cambiare le pratiche di intervento e le modalità di lavoro degli operatori di servizi. La riforma ha funzionato bene laddove già c’era un movimento preesistente, e invece ha trovato difficoltà negli altri luoghi anche perché non c’erano finanziamenti dedicati per il superamento degli ospedali psichiatrici, che era il tema centrale della legge e che ha richiesto ben ventidue anni per essere realizzato – grazie ad una riga nella legge di bilancio del 1995 prima e ad una scelta di un governo successivo che ha sancito la chiusura degli ospedali psichiatrici e ha obbligato le regioni a garantire i servizi. Inoltre si è dovuto aspettare ben sedici anni, a partire dal 1978, il primo Progetto Obiettivo Nazionale per la Salute Mentale che definiva che tipo di servizi erano previsti, e che cosa voleva dire Centro di Salute Mentale, cosa significava Servizio di Diagnosi e Cura, come doveva essere organizzato il Dipartimento di Salute Mentale e così via. Il secondo Progetto Obiettivo del 1998 finalmente sanciva quali erano gli obiettivi primari di questi servizi. C’è stato insomma un grande lasso di tempo nel quale c’è stata grande incertezza e vuoto, portando ad un incremento delle difficoltà di applicazione della riforma. A tanti anni di distanza la luce è sicuramente data dallo stato di diritto delle persone che hanno un problema di salute mentale rispetto ad altri Paesi europei. L’Italia, infatti, garantisce a tutti una cura nel rispetto dei diritti. L’uso del trattamento sanitario obbligatorio è molto limitato sia nella frequenza che nella durata, di solito una settimana, e per rinnovarlo bisogna motivare; inoltre esso viene disposto dal Sindaco, ovvero da una autorità che non è di polizia o di ambito giudiziario. L’intervento della magistratura è finalizzato alla tutela dei diritti, non prescrive la cura come se fosse una pena, una sanzione. Spesso la psichiatria è ancora dominata dalla gestione dei comportamenti disturbanti e delle condizioni di rischio, insomma dalla questione del controllo sociale. Questa sta un po’ in tutte le legislazioni, e di solito l’aspetto giudiziario le contamina. La legge 180 tira fuori completamente la questione della cura dei disturbi psichici da questa area di tipo giudiziario e la restituisce al rispetto del diritto alla cura per come è sancito dall’articolo 32 della  Costituzione. Questo è l’aspetto fondamentale nonostante le ombre della legge, che non è dappertutto applicata con servizi adeguati, né ci sono politiche omogenee. Nonostante ciò le persone hanno uno statuto di diritti molto alto.

Cosa è cambiato in psichiatria da allora?

È cambiato tantissimo nel senso che ci si è resi conto che un approccio restrittivo, riduzionista, medico-biologico al problema del disturbo mentale è un approccio perdente perché guarda solo alla malattia e non guarda alla complessità della persona, al soggetto nella sua dimensione esistenziale e sociale. Da questo punto di vista Basaglia ha rappresentato una vera rottura con la storia della psichiatria che andava, invece, a definire un corpus tassonomico di patologie che poi sono state variamente classificate dall’Ottocento in avanti. Al di là dei modi di classificare la malattia mentale, che si sono sempre evoluti – o involuti – la persona in quanto tale fuggiva via dall’orizzonte della cura. Il lavoro che è stato fatto dal movimento che Basaglia ha trainato, e che si è chiamato all’inizio non a caso Psichiatria Democratica nel senso di restituire una dimensione di voce, di diritto e centralità della persona, puntava alla riscoperta di un approccio globale a questa  persona, alla sua vita e al contesto sociale dove vive o deve tornare a vivere. Questa è la visione di una psichiatria di comunità, ovvero che si fonda sulla cura all’interno di una comunità, e che si collega a tutte le pratiche capaci di tutelare e di promuovere la salute mentale, la quale a sua volta rappresenta un aspetto più ampio di quello strettamente disciplinare della psichiatria come parte di un sapere medico. I servizi che oggi operano in tutto il mondo in una dimensione di territorio, di comunità non possono prescindere da questo livello di complessità. Per lavorare intorno alla persona devono allora rispondere a tutti i suoi bisogni individuali, relazionali e sociali: dovranno interessarsi a cosa succede nella sua famiglia, nella sua rete sociale, nelle sue relazioni, nell’ambiente di lavoro, nelle condizioni sociali di emarginazione e di esclusione che la persona può vivere, dovranno interrogarsi su come promuovere rapporti e opportunità e quindi inclusione e integrazione sociale. Questo modello di complessità è quello che ha marcato il cambiamento perché spostandosi da dentro le grandi istituzioni, mondi chiusi e separati, verso una dimensione di vita all’interno della comunità è chiaro che bisognava affrontare questa sfida di enorme complessità.

Quali sono le potenzialità di tale metodo?

Le potenzialità sono quelle che possono venire dal riconoscimento delle risorse che sono presenti dentro le persone e dentro le loro relazioni, anche dentro i loro contesti familiari, cercando di minimizzare quelli che sono i disturbi nelle relazioni, le distorsioni nei rapporti, e di affrontare con coraggio e con ottimismo tutto quello che le stesse persone, le loro famiglie e il contesto sociale ci possono offrire. Quando parlo di tessuto sociale mi riferisco anche a tutti i servizi che possono accogliere, collaborare e cooperare insieme con i servizi di salute mentale, quali i servizi sociali, i distretti sanitari, gli ospedali, ma anche le istituzioni della comunità, le associazioni, la cittadinanza attiva, tutti coloro che possono lavorare per permettere una effettiva inclusione sociale delle persone che è il punto centrale, senza il quale non si fa terapia. Si cerca in questo modo di restituire dei pezzi di società che sono stati esclusi fino all’orizzonte del ‘900. Questo vuol dire evitare che si creino condizioni di sopraffazione, di esclusione, di emarginazione da parte di istituti che gestiscono questa o simili forme di allontanamento dalla società e, di converso, riconoscere che lavorare intorno alla salute mentale non vuol dire espellere coloro che soffrono, ma cercare di lavorare intorno ai loro problemi, in rapporto a coloro che vivono intorno a loro, promuovere un intervento non solo sui “pazienti” ma su tutta la comunità.

Spesso nella nostra società il diverso viene considerato “folle” e di conseguenza escluso con tutte le conseguenze che ne derivano. Possiamo considerare questo atteggiamento una sorta di controllo sociale sull’individuo?

Si, certamente. Questa è di fatto una delle origini storiche della psichiatria che nasce anche come modo per dare una giustificazione scientifica a interventi di separazione e esclusione della devianza di vario tipo dal povero al debitore, dal malato in generale al demente, che venivano messi dentro grandi istituzioni già nel ‘600 in Francia e ancora prima in Italia (vedi la nascita di Santa Maria della Pietà a Roma). Tutti i grandi asili nascevano molto prima della psichiatria. Questa comincia poi a dare un ordine scientifico e quindi ad isolare la figura del folle, costruendo una giustificazione a questa operazione di controllo sociale e di esclusione che esisteva già da prima, all’interno della quale le persone venivano collocate in luoghi lontani dalla comunità per essere in tal modo controllate.

Il controllo sociale resta anche nelle pratiche di oggi, e sarebbe troppo bello e facile pensare che lavorare dentro la comunità riesca ad emendare i servizi da questo tipo di problemi. I servizi devono confrontarsi con questo, perché se si cerca di curare un disturbo che sta nella psiche e nel comportamento delle persone e anche nelle relazioni, questo atto del curare in sé costituisce anche una sorta di regolazione e in un certo senso di controllo sociale sulle persone. L’importante è che ciò venga fatto nell’interesse di tutti – se mai possibile – ma soprattutto del sofferente, per poter promuoverne l’emancipazione, una migliore qualità di vita e l’uscita dalle condizioni di sofferenza o almeno il miglioramento di queste condizioni. Bisogna attraversare tutti gli aspetti del controllo sociale, bisogna sporcarsi le mani, intervenire, modificare, mettere il naso in tutte le condizioni complesse per trovare le soluzioni che toccheranno inevitabilmente interi nuclei sociali.

 

Lei ha lavorato con Franco Basaglia. Che aria si respirava?

Ho iniziato la mia specializzazione in psichiatria a Bari e sono arrivato a Trieste quando si stava concludendo il grosso del lavoro all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste. Ho partecipato all’ultima parte di questo processo, e sono stato personalmente impegnato in un reparto dove c’erano molte persone in uno stato di estrema gravità psicofisica: c’erano dementi, persone con psicosi che il processo di apertura aveva lasciato un po’ indietro, insomma gli ultimi. Ho conosciuto Basaglia e tutto il suo gruppo straordinario, che lui stesso aveva contribuito a creare, prima a Gorizia (i membri di quell’equipe sono poi andati per l’Italia a dirigere manicomi e servizi, a fare opera di trasformazione), e quindi a Trieste dove aveva formato un nuovo gruppo di medici e altri operatori, soprattutto giovani. Si respirava un’aria coinvolgente all’interno della quale venivano confrontate in maniera molto attiva e critica le azioni che si mettevano in atto. Ognuno doveva rispondere ad un gruppo molto forte che portava avanti una strategia, sia pure in maniera discussa, dialettizzata e aperta, che era però sicuramente indirizzata al superamento dell’Ospedale Psichiatrico e alla creazione di alternative.

Quando sono arrivato io ho trovato già i Centri di Salute Mentale operanti. Ho poi lavorato in due di questi, in un appartamento, e in quel reparto di un’istituzione che ancora ci avrebbe messo un paio d’anni per essere chiusa definitivamente (nel 1980), mentre nel frattempo era uscita la legge 180. Io sono arrivato proprio a ridosso dell’iniziale applicazione della legge e ho partecipato a questa grande impresa di trasformazione proprio nel momento in cui si radicava nella città in maniera importante.

Nascevano centri di salute mentale come proiezione del lavoro fatto dentro i reparti dell’ospedale psichiatrico: le persone venivano accompagnate verso nuove forme di una vita che rinasceva dentro la città, con il sussidio economico, con le borse lavoro, con le prime cooperative sociali, con i gruppi appartamento, ossia alloggi dove chi non aveva famiglia poteva coabitare e scambiare con altre persone che provenivano dalla stessa esperienza, fino a trovare gradatamente soluzioni sempre più individualizzate, abitative e di vita, per ciascuno.

Il Centro di Salute Mentale aveva il grande obiettivo di supportare, accompagnare il processo di svuotamento dell’ospedale psichiatrico e di creazione di tutti i supporti e i servizi necessari nella comunità, nel quartiere.

Come reagiva allora e adesso la gente innanzi a tali cambiamenti?

Allora ci sono state tantissime difficoltà. Basaglia osava dire che era necessario star vicino a coloro nei confronti dei quali era stata operata una certa forma di violenza, perché si passava da famiglie che avevano un loro congiunto dentro l’ospedale psichiatrico a famiglie che vedevano a volte restituita questa parte che ne era stata esclusa, a volte anche con operazioni in buona fede di supposta cura, il più spesso con operazioni di chiara espulsione. Tutto questo lavoro di ricucitura era difficilissimo e molto pesante: spesso bisognava lavorare contro le resistenze che c’erano da parte di tutti, non solo delle famiglie, ma soprattutto degli apparati e delle istituzioni.

Franco Rotelli, che ha sostituito poi Basaglia, disse chiaramente che anche se il manicomio era stato superato ne era rimasta l’ombra, come l’impronta dentro gli apparati giudiziari, dove la pratica delle perizie spesso, anche su piccole trasgressioni della legge, attraverso la dichiarazione   di incapacità e di pericolosità mandava le persone in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Non solo la cultura giuridica ha fatto fatica ad adattarsi a questi cambiamenti, come anche la cultura sanitaria: curare una persona con disturbo psichico grave e con disturbi fisici organici anche oggi resta una sfida. Gradatamente, anche attraverso le assemblee nei quartieri e nei condomini, ma soprattutto attraverso una presenza quotidiana degli operatori, queste resistenze si sono sciolte: è stato più facile laddove c’è stata una società partecipe, dove c’è stato il coinvolgimento delle forze sociali, dei sindacati, dei partiti, delle associazioni dei cittadini, dei consigli circoscrizionali, degli istituti di case popolari, di tutti coloro che hanno permesso la ricollocazione di queste persone all’interno del tessuto sociale. Anche la stampa, che prima ci guardava con occhio severo, stigmatizzava il comportamento del matto che uscito fuori dal manicomio trasgrediva o semplicemente disturbava, adesso è diventata un potenziale alleato, come nelle campagne sul suicidio.

Oggi di fatto la cultura intorno alle nostre questioni è cambiata in maniera profonda, è molto più tollerante ma soprattutto partecipativa e capace di un’intelligenza che va oltre gli sterotipi che la stessa psichiatria continua a riprodurre. Norberto Bobbio classificò la riforma psichiatrica come l’unica grande riforma completamente realizzata che ha cambiato paradigma nell’ambito della legislazione italiana. Questo è il riconoscimento di un grande avanzamento di civiltà, in cui da un lato le leggi e dall’altro le culture sono andate di pari passo, sia pure con tutte le difficoltà e gli ostacoli che hanno incontrato.

 

Sempre più spesso nelle aule giudiziarie in seguito a cause di separazione si fa ricorso alla perizia psichiatrica chiesta nei confronti di uno o di entrambi i coniugi al fine di screditare il coniuge e ottenere in maniera più sicura l’affidamento dei figli. Questa tecnica, se abusata, può portare ad un uso distorto della perizia psichiatrica?

Ci sono mille modi per invalidare quello che ho definito lo statuto di diritto del cittadino, ‘seppur sofferente’, che può essere messo in discussione ancora oggi. Noi abbiamo avuto un grande conforto dall’evoluzione del diritto. Importantissimo il lavoro che ha fatto ad esempio il prof. Paolo Cendon nel cercare di restituire questa capacità di muoversi in ambito civilistico, come ad esempio la capacità di stipulare contratti, come anche di rispondere in ambito penale di eventuali reati.

Ciò non toglie che anche oggi si può usare la psichiatria come un’arma impropria per sminuire i diritti delle persone. Così, mentre tutti i servizi fanno uno sforzo per sostenere il diritto e la capacità di una persona a svolgere la propria maternità o paternità e a godere dei diritti-doveri che ne derivano, ci può essere anche un utilizzo improprio del sapere-potere della psichiatria, ad esempio attraverso una perizia che invalida tutto questo.

Lo stato oggi del pensiero scientifico psichiatrico, però, tende ad escludere in linea di massima, fatti salvi rigurgiti di vecchi pensiero di tipo giuridico penale, che una condizione di infermità anche grave possa rendere la persona totalmente incapace in tutte le aree della sua esplicazione come soggetto. Puoi avere qualcuno che sia parzialmente inabile, incapace in alcune fasi, in alcuni momenti della sua vita, in alcune specifiche aree di comportamento sociale, ma non esiste nessuno che sia ‘sempre e totalmente’ incapace di intendere e di volere, soltanto perché ha avuto o ha attualmente un disturbo mentale.

 

Nel 2010 tutti abbiamo visto le immagini dei trattamenti di Francesco Mastrogiovanni, il maestro anarchico legato ad un letto di un servizio psichiatrico di diagnosi e cura. Guardando quelle scene sembra di rivivere i racconti con cui inizia “L’istituzione negata”, in particolare le parole di Margherita. Come è possibile che ancora oggi accadano in Italia cose del genere?

Questo è uno dei grossi occultamenti che ci sono stati lungo il percorso dell’applicazione della legge fino a quando si è andata denunciando, in particolare per opera del Forum Salute Mentale. È la dimostrazione della violenza, della contenzione, della restrizione della libertà che ancora oggi vengono, seppur non più costantemente, adottate. Trovare anche in un ospedale generale un reparto di quindici letti, c.d. di diagnosi e cura, che non chiuda la porta e che non usi legare le persone che sono in crisi, resta ancora una questione aperta. È una sfida che va affrontata sul piano delle pratiche, da un lato, e sul piano giuridico dall’altro, per non offrire giustificazioni, neppure nei casi più eclatanti.

Nella storia del maestro Mastrogiovanni, come in altri casi che sono stati documentati negli ultimi anni, abbiamo visto chiaramente che una persona attraverso la contenzione non solo ha subito una terribile violenza, ma è stata abbandonata a se stessa e gli è stato negato qualsiasi diritto a ricevere un’assistenza; è stata una forma di tortura che alla fine ne ha determinato la morte.

Accanto a questi singoli episodi gravi, ingiustificabili, ci sono tutti quelli che Basaglia definiva “crimini di pace”, situazioni in cui ogni giorni ci sono persone che vengono contenute, legate e tutto ciò è giustificato con finalità terapeutiche. Spesso si tratta di procedure brutali di riduzione e repressione delle persone con disturbi, senza neanche porsi il problema delle richieste e dei bisogni. Queste sono pratiche che dobbiamo ancora continuare a stigmatizzare e sulle quali la battaglia è ancora aperta, il che richiede un alto livello di sorveglianza da parte dei cittadini, delle istituzioni, di tutti quelli che hanno a cuore una dimensione di civiltà.

 

Quale è oggi la situazione degli ospedali psichiatrici in Italia?

Gli ospedali psichiatrici in senso stretto in Italia, a differenza della maggior parte dei Paesi europei, non esistono più sulla carta e anche nella realtà, nel senso che esistono ancora alcuni residui che hanno cambiato nome ma che sono stati cambiati nel loro uso. Non ci sono più reparti che accolgono dentro istituzioni separate, lontane dalla società, magari enormi come erano gli ospedali psichiatrici. Le persone che sono in crisi vengono accolte in posti letto presso gli ospedali generali nei servizi di diagnosi e cura o, come avviene in Friuli Venezia Giulia o in altre realtà italiane, in Centri di Salute Mentale aperti sulle 24 ore con posti letto, all’interno dei quali, attraverso una dimensione più amichevole, dove si viene riconosciuti e si può restare anche solo una notte, è garantita una alternativa al ricovero. Questo in rapporto con tutte le altre forme di supporto e di intervento domiciliari e di rete.

 

E degli ospedali psichiatrici giudiziari?

Inzialmente si era sostenuto, da parte dei critici della riforma, che sarebbero stati una sorta di compensazione alla mancanza di manicomi civili ed è stato ipotizzato che sarebbero cresciuti a dismisura. In realtà questo non si è verificato, ma tutt’oggi circa 1.400 persone sono dentro gli ospedali psichiatrici giudiziari nonostante ci sia stata una dichiarazione non solo di principio ma anche un provvedimento legislativo che è intervenuto un anno e mezzo fa a dichiarare la loro necessaria chiusura. Nonostante le proroghe, sono previste e si stanno organizzando nuove strutture regionali volte al superamento dell’ospedale psichiatrico giudiziario. Su questi aspetti è aperto un aspro dibattito. Obiettivamente è possibile passare da 6 grosse istituzioni collocate spesso in centri vetusti, obsoleti, con condizioni igieniche terrificanti, a reparti con massimo 20 posti letto, senza che nulla cambi in modo sostanziale e anzi col rischio di aprire dei nuovi manicomi collocati in qualche caso addirittura in vecchie carceri abbandonate e riadattate allo scopo. Il rischio di creare comunque reparti apparentemente puliti, ma con la sorveglianza perimetrale fatta dalla polizia e in tutto simili a delle carceri rimane, riproponendo inalterato il vecchio binomio cura-custodia. Un discorso più corretto deve partire dall’auspicato mutamento legislativo del codice penale negli articoli 88 e 89 sull’imputabilità, con la conseguenza di garantire a tutti il diritto al processo, fino alla realizzazione di alternative pratiche che si fondano sulla presenza dei Servizi di Salute Mentale pubblici nelle carceri, con i loro operatori che sostengono giornalmente i ristretti in carcere in stato di sofferenza psichiatrica, a volte attuando ricoveri brevi presso i Servizi di Diagnosi e Cura o i Centri di Salute Mentale.  Alternative di vario tipo possono essere costruite anche quando la persona è stata mandata in ospedale psichiatrico giudiziario, perché se abbiamo la capacità di attivare i c.d. budget individuali di cura, cioè una quota di denaro che va sostenere un progetto per quella persona specifica, disegnato intorno ai suoi bisogni, possiamo certamente costruire migliori risposte che garantiscono anche, alla fine, una maggior tutela alla collettività attraverso la riabilitazione e la reintegrazione sociale invece dell’esclusione, ancora una volta.

Lei ha contribuito a fondare anche la Conferenza Permanente per la Salute mentale nel Mondo Franco Basaglia. Di cosa si occupa e verso dove è indirizzata?
La Conferenza Permanete per la Salute Mentale è un’associazione con sede a Trieste che si è posta il compito di raccogliere le migliori pratiche sulla salute mentale presenti in Italia e nel mondo al fine di costruire una rete mutuale di esperienze e di scambi. Si è anche collegata a reti già esistenti che abbiamo contribuito a far nascere come la International Mental Health Collaborating Network, all’interno delle quali diverse esperienze spesso isolate trovavano punti in comune e portavano avanti progetti assieme, come ad esempio è stato fatto nei Paesi Balcanici durante e subito dopo la guerra sotto l’egida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Costruire reti a livello globale serve a mettere insieme le migliori pratiche, a confrontare le esperienze e a diffondere le innovazioni, onde contrastare una psichiatria che spesso resta sorda al cambiamento di paradigma che sta avvenendo e che Trieste ha anticipato. La psichiatria delle falsificazioni è sempre lì, potentissima perché sostenuta dalle lobby farmaceutiche e assicurative internazionali, che vogliono oggettivare la condizione di disturbo psichico e creare un linguaggio comunicabile e globalizzato, indifferente alle varietà di contesti  e situazioni e ancora una volta capace di annullare la variabile umana, la soggettività, ovvero a riconoscere l’importanza dell’uomo e della comunità.

Queste parole fanno riemergere alla mente le parole che Franco Basaglia, un anno prima di morire, pronunciò nelle sue Conferenze Brasiliane: “Potrà accadere che i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so”. E’ possibile un tale scenario? Come si può evitare?
Il rischio c’è sempre, ma forse non i manicomi perché sono delle istituzioni che sono state molto costose e che hanno rappresentato un’utopia da un certo punto di vista anche in positivo, nel senso che si riteneva che si potessero curare le persone in luoghi ampi, con grandi giardini, lontani dal caos della vita normale. Tali istituzioni sono costate moltissimo e oggi sarebbe improponibile anche pensare di ricostruirle allo stesso modo. Non è comunque escluso: in Australia, nello stato di Victoria, è appena stato costruito un grande ospedale psichiatrico modernizzato che convive peraltro con servizi avanzatissimi di comunità che si trovano vicino.
Il rischio delle grandi istituzioni concentrazionarie c’è sempre, ma credo che il problema sia più sottile: esistono forme di limitazione della libertà, di costrizione dei comportamenti devianti che si possono riprodurre anche in piccoli contesti, come, ad esempio, i nuovi mini ospedali psichiatrici giudiziari che possono nascere, o come i nuovi reparti di security beds in Inghilterra spesso gestiti dal privato, dove i servizi pubblici delegano i ‘casi difficili’ ad una istituzione chiusa.
Il manicomio diffuso ci può essere ancora, in un certo senso c’è già e può davvero risorgere se non manteniamo un altissimo livello di informazione e di coinvolgimento dei cittadini a partire dagli utenti dei servizi, se chiudiamo la psichiatria dentro una questione soltanto disciplinare degli psichiatri, e non manteniamo alta la sorveglianza civile e democratica su queste tematiche.

Angela Allegria
Agosto 2013
In Nuove Frontiere del Diritto

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