11 Gen 2016

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I nuovi delitti ambientali

I nuovi delitti ambientali

Con la legge n. 68 del 22 maggio 2015 il legislatore ha introdotto nel nostro codice penale 5 nuovi delitti ambientali. Il provvedimento, atteso da oltre quindici anni,[1] dà attuazione alla direttiva europea n. 2008/99/CE con la quale l’Europa ha chiesto ai Paesi membri l’introduzione nei propri ordinamenti di nuove fattispecie di reato volte a proteggere l’ambiente. Il preambolo della stessa (art. 5), infatti, precisa che “attività che danneggiano l’ambiente, le quali generalmente provocano o possono provocare un deterioramento significativo della qualità dell’aria, compresa la stratosfera, del suolo, dell’acqua, della fauna e della flora, compresa la conservazione delle specie esigono sanzioni penali dotate di maggiore dissuasività”.

Nella sentenza del 13 settembre 2005 (causa C-176/03, Commissione c/ Consiglio), la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che la tutela dell’ambiente costituisce uno degli obiettivi essenziali della Comunità europea ai sensi degli artt. 2 e 6 TCE e pertanto “gli artt. 174-176 TCE costituiscono, in via di principio, la cornice normativa entro la quale deve attuarsi la politica comunitaria in materia ambientale”.

Il testo approvato, composto da 3 articoli, persegue tre obiettivi:

1)     Inasprire il quadro sanzionatorio per le condotte che danneggiano l’ambiente (attualmente punite prevalentemente a titolo di contravvenzione) inserendo nuovi delitti nel c.p. e nove ipotesi di responsabilità derivante da reato per le persone giuridiche;

2)     Raddoppiare il termine di prescrizione per i nuovi delitti;

3)     Prevedere forme di ravvedimento operoso mediante una diminuzione di pena nei confronti di chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche fornendo un aiuto concreto all’autorità giudiziaria nella ricostruzione dei fatti, nell’individuazione dei colpevoli e nel consentire la sottrazione di risorse rilevanti per la commissione di delitti ovvero di chi, prima dell’apertura del dibattimento, provveda alla messa in sicurezza e alla bonifica.

Per la lettura di tale legge viene sin da subito in ausilio l’ufficio massimario della Corte di Cassazione con la relazione n. III/04/2015 del 29 maggio 2015, nella quale si esprimono perplessità circa lo scopo raggiunto dal legislatore.

La lettura della novella legislativa palesa la difficoltà del legislatore nel raggiungere un punto di equilibrio fra istanze apparentemente antagoniste: da una parte, l’esigenza di una definizione quanto più puntuale delle fattispecie, operazione che non pare sempre centrare pienamente l’obiettivo, soprattutto quando vengono introdotti concetti a contenuto “aperto” o connotazioni modali delle condotte la cui portata potrà essere misurata solo nella pratica; dall’altra, la necessità di non imbrigliare l’assetto normativo in una casistica che non può a priori esaurire tutta la possibile gamma delle manifestazioni criminose e che rischierebbe, oltretutto, di vanificare la stessa praticabilità processuale della risposta legislativa.[2]

Il legislatore inserisce, dopo il titolo VI del secondo libro del c.p., il titolo VI-bis “Dei delitti contro l’ambiente” (composto da 12 articoli) all’interno del quale sono annoverati i delitti di: inquinamento ambientale (art. 452 bis), disastro ambientale (art. 452 quater), traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività (art. 452 sexies), impedimento del controllo (art. 452 septies), omessa bonifica (art. 452 terdecies).

L’art. 452 bis c.p. prevede la reclusione da due a sei anni e la multa da euro 10.000 a euro 100.000 per chi compie il delitto di inquinamento ambientale e, in particolare, punisce la condotta di chi abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo (n.1), di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna (n. 2).

Nello stesso articolo è prevista una aggravante che si applica nella ipotesi in cui l’inquinamento è prodotto in una area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette.

Distaccandosi dal modello di illecito costruito sull’esercizio di attività inquinante in difetto di autorizzazione ovvero in superamento dei valori soglia, la previsione risulta costruita come delitto di evento e di danno, dove l’evento di danno è costituito dalla compromissione o dal deterioramento, significativi e misurabili, dei beni ambientali specificamente indicati.

In quanto concepito come reato a forma libera (“chiunque… cagiona…”), l’inquinamento nella sua materialità può consistere non solo in condotte che attengono al nucleo duro –  acque, aria e rifiuti – della materia, ma anche mediante altre forme di inquinamento o di immissione di elementi come ad esempio sostanze chimiche, OGM, materiali radioattivi e, più in generale, in qualsiasi comportamento che provochi una immutazione in senso peggiorativo dell’equilibrio ambientale. L’inquinamento potrà essere cagionato sia attraverso una condotta attiva, ossia con la realizzazione di un fatto considerevolmente dannoso o pericoloso, ma anche mediante un comportamento omissivo improprio, ovvero con il mancato impedimento dell’evento da parte di chi, secondo la normativa ambientale, è tenuto al rispetto di specifici obblighi di prevenzione rispetto a quel determinato fatto inquinante dannoso o pericoloso.

Una prima osservazione attiene evidentemente al rapporto e coordinamento fra la definizione di inquinamento data dalla norma e quella, già conosciuta dall’ordinamento, di cui all’art. 5 del Codice dell’Ambiente (d. lgs. 152/2006), che definisce l’inquinamento ambientale come “l’introduzione diretta o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore o rumore o più in generale di agenti fisici o chimici, nell’aria, nell’acqua o nel suolo, che potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità dell’ambiente, causare il deterioramento dei beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell’ambiente o ad altri suoi legittimi usi”; nozione che sembra conservare la funzione di canone ermeneutico utile per qualificare, nelle sue concrete estrinsecazioni, ogni forma di alterazione peggiorativa dell’ambiente, laddove alla novella è assegnato il compito di definire il momento in cui una condotta di alterazione assume le connotazioni qualitative e quantitative del delitto di inquinamento vero e proprio. [3]

Il risultato della condotta materiale si sostanzia in una “compromissione” o un “deterioramento”.

Il discrimine fra le due situazioni non è agevole.

Dal punto di vista strettamente lessicale, la prima espressione si distingue dalla seconda per una proiezione dinamica degli effetti, nel senso appunto di una situazione tendenzialmente irrimediabile (“compromessa”) che può perciò teoricamente ricomprendere condotte causali al tempo stesso minori o maggiori di un’azione di danneggiamento, ma che rispetto a questo abbiano un maggior contenuto di pregiudizio futuro. In ambito normativo, i due termini si rinvengono insieme, ma in una diversa relazione tra loro (il “deterioramento” inteso come forma di “compromissione”), nella definizione di danno ambientale data dall’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (Legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente), individuato in “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”; una formula che corrisponde alla progressione misurabile (secondo parametri scientifici) del danno ambientale, al cui interno il deterioramento coincide in una perdita del grado di usabilità e/o di funzionalità ecologica.

Nel d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, invece, il termine “compromissione” non è quasi mai utilizzato e, laddove lo è, non è impiegato per indicare una situazione di danno attuale, per la quale si utilizza invece il termine “deterioramento” (art. 300).

Nell’assenza di inequivoci riscontri testuali, non può anche escludersi un significato dei due lemmi se non identico (interpretando l’espressione come un endiadi, nonostante la presenza della disgiuntiva “o”) quanto meno largamente sovrapponibile, il cui nucleo comune è rintracciabile in quella situazione fattuale risultante da una condotta che ha determinato un danno all’ambiente.

Con riferimento al requisito della “significatività” e “misurabilità”, va ricordato che nella lettura definitiva è stata abbandonata una prima formulazione che, nel pretendere un inquinamento “rilevante”, lasciava aperte tutte le perplessità sul rispetto del principio di determinatezza di cui al secondo comma dell’articolo 25 della Costituzione.

Se la “significatività” indica una situazione di chiara evidenza dell’evento di inquinamento in virtù della sua dimensione, la richiesta compresenza di un coefficiente di “misurabilità” rimanda alla necessità – ridondante ovviamente sul piano probatorio – di una oggettiva possibilità di quantificazione, tanto con riferimento alle matrici aggredite che ai parametri scientifici (biologici, chimici, organici, naturalistici, etc.) dell’alterazione; finendo così inevitabilmente per richiamare quella quantificazione e gradazione del danno ambientale, di cui al già citato art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349.

Il concetto di compromissione o deterioramento “significativi e misurabili” riprende peraltro la definizione di danno ambientale di cui all’art. 300 del Codice dell’Ambiente (“qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”) e la stessa nozione comunitaria di “danno ambientale” posta dalla direttiva 2004/35/CE, che usa l’espressione “mutamento negativo misurabile di una risorsa naturale o un deterioramento misurabile di un servizio di una risorsa naturale, che può prodursi direttamente o indirettamente”.

In concreto, il confine sul lato inferiore della condotta dovrebbe essere rappresentato dal mero superamento delle concentrazioni soglie di rischio (CSR) – punito dalla diversa fattispecie di pericolo prevista dall’art. 257 del d. lgs. 152/2006, ove non seguito dalla bonifica del sito – che non abbia arrecato un evento di notevole inquinamento; mentre sul versante opposto la fattispecie confina, nella progressione immaginata dal legislatore, con il più grave reato di disastro, che pretende (come di dirà oltre) una alterazione “irreversibile o particolarmente onerosa” dell’ecosistema: di modo che l’inquinamento è ravvisabile in tutte le condotte di danneggiamento delle matrici che, all’esito della stima fattane, producono una alterazione significativa del sistema, senza assumere le connotazioni dell’evento tendenzialmente irrimediabile.[4]

Quanto al bersaglio della compromissione, continua la Cassazione, identiche considerazioni in punto di tipicità valgono per l’inciso “porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo”: è indubbio che categorie così (in)definite possano provocare incertezze in sede processuale e, soprattutto, dilatare eccessivamente lo spazio di discrezionalità del giudicante; tuttavia è possibile immaginare che, come avvenuto in altre occasioni (si guardi agli approdi di legittimità in tema di “ingente quantitativo di rifiuti” ex art. 260 d. lgs. 152/20066 o, in tutt’altro ambito, in tema di “ingente” quantità di stupefacente), il percorso giurisprudenziale possa enucleare – con sufficienti margini di conoscibilità del precetto e conseguente prevedibilità della sanzione – le caratteristiche della “estensione” (da valutare, salvo errori, con esclusivo riferimento al dato spaziale quantitativo) e della “significatività” (indicativa invece di una rilevanza non strettamente ancorata al parametro dimensionale ma, appunto, alla significatività dell’area all’interno del territorio circostante).

Nonostante l’inserimento nella Carta costituzionale, non si rinviene una vera e propria definizione normativa di “ecosistema”, per cui deve farsi riferimento alla comune accezione che definisce per tale l’insieme degli organismi viventi (comunità), dell’ambiente fisico circostante (habitat) e delle relazioni biotiche e chimico-fisiche all’interno di uno spazio definito della biosfera.

Opportunamente, la stesura definitiva della norma, mutando una precedente versione che operava un riferimento all’ecosistema in generale, parla di un ecosistema, eliminando ogni incertezza sulla integrazione del reato anche in presenza di aggressione al singolo ecosistema (si pensi a particolari micro-contesti ambientali, come ad esempio aree ben delimitate e caratterizzate da specifiche biodiversità).[5]

Anche il termine “abusivamente” desta plurimi interrogativi.

Il testo definitivo della disposizione adopera il termine “abusivamente” per definire il carattere illecito della condotta di inquinamento.

L’eliminazione del riferimento alle sole violazioni poste a tutela dell’ambiente è stata giustificata con lo scopo di eliminare ogni incertezza sulla configurabilità del reato anche per effetto di condotte di inquinamento (e di disastro) consumate mediante infrazione di regole volte a tutelare in via immediata interessi diversi ma collegati alla tutela ambientale.

Stando alle dichiarazioni programmatiche, mediante tale sostituzione il legislatore ha inteso poi superare le questioni che il richiamo alle disposizioni comportava, rispettivamente, sul piano del concorso di reati ovvero del concorso apparente di norme penali o, nel caso di illecito amministrativo, sul piano dell’applicabilità del principio di specialità di cui all’articolo 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

Il tenore letterale della disposizione precedente suggeriva apertamente l’idea di un reato complesso, comprendente in sé altro illecito penale (o amministrativo) con in più l’evento tipizzato, ovvero la compromissione o il rilevante deterioramento ambientale.

Prudentemente, la Cassazione precisa che si può ipotizzare che – a differenza di altre situazioni: si pensi per esempio all’ambito della prevenzione e protezione dagli infortuni sul lavoro, dove la violazione formale concorre senza dubbio con altri reati, a cominciare proprio dal disastro ex art. 434 comma 2 c.p., in ragione della diversità dei beni lesi o messi in pericolo mediante un’unica condotta attiva o più spesso omissiva – sia qui proprio la progressione quantitativa nella messa in pericolo o lesione dell’unico bene “ambiente” a condurre verso un assorbimento delle violazioni formali (in particolare, della contravvenzione di cui all’art. ex art. 257 d. lgs. 152/2006) allorquando si registri una sovrapposizione delle fattispecie, potendosi ipotizzare invece il concorso di reati ogni qual volta attraverso la commissione di un illecito penale di natura diversa da quella ambientale si cagioni anche un evento di inquinamento (o di disastro); salvo che non si imponga una diversa lettura plurioffensiva degli illeciti ambientali sottostanti – specialmente di quelli che si concretizzano non in un azione materiale di inquinamento o immissione ma in una condotta meramente formale (tipico il caso di mancanza di autorizzazione) – che privilegi la compresenza di un interesse protetto ulteriore, identificabile nella potestà di tutela e di controllo preventivo facente capo alla pubblica amministrazione.[6]

Con riferimento alle conseguenze non volute dal reo, derivanti dal delitto di inquinamento ambientale il legislatore nell’art. 452 ter c.p. distingue: se derivano lesioni personali colpose, ad eccezione delle ipotesi in cui la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni, si applica la pena della reclusione da due anni e sei mesi a sette anni, se la lesione è grave, la pena della reclusione va da tre a otto anni, se gravissima da quattro a nove anni. Nell’ipotesi di morte la pena prevista è la reclusione da cinque a dieci anni.

A tali casi si aggiungono le ipotesi di morte e/o lesioni di più persone si applica la pena per l’ipotesi più grave, aumentata fino al triplo. In ogni caso la pena della reclusione non può superare i venti anni.

A parere della Cassazione la disposizione crea dunque una fattispecie di reato, l’inquinamento ambientale, aggravato dall’evento di morte o lesioni, costruita sulla falsariga dell’art. 586 c. p., contemplando un articolato catalogo di pene graduato in ragione della gravità delle conseguenze del delitto e mirando, nella sostanza, ad inasprire il trattamento sanzionatorio di fatti che sarebbero comunque punibili a titolo di lesioni od omicidio colposi.

La norma suscita qualche interrogativo, nella misura in cui non si rinviene una analoga previsione anche con riferimento al reato di disastro che, per definizione, rappresenta un fatto di inquinamento ambientale dagli effetti appunto “disastrosi” e come tale con maggiori potenzialità aggressive nei confronti della incolumità fisica delle persone. Appare, in altri termini, poco giustificabile che il legislatore non abbia inteso punire specificamente le più probabili conseguenze mortali o lesive che possono derivare da una “alterazione irreversibile” dell’ambiente, preoccupandosi di sanzionare solo quelle frutto di una mera “compromissione o deterioramento”, sia pure significativi e misurabili. Tra l’altro, il disastro ambientale è integrato comunque quando la compromissione o il deterioramento abbiano raggiunto un tale livello da costituire una “offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo”: il che sta a significare che la fattispecie di cui all’art. 452 ter si dovrebbe applicare, se mal non se ne interpreta il significato, solo nella ipotesi – difficile da immaginare nella pratica – di un condotta di inquinamento che abbia cagionato, come effetto non voluto, morti o feriti, senza però che al suo manifestarsi costituisse quanto meno un’esposizione a pericolo della pubblica incolumità.

La Cassazione pone anche ulteriori spunti con riferimento all’elemento psicologico del reato. Un fatto doloso di inquinamento ambientale – ossia non un mero superamento delle concentrazione soglie di rischio, bensì una deliberata compromissione significativa e misurabile delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo – potrebbe significare, proprio per i suoi effetti ad ampio raggio, non soltanto la “prevedibilità in concreto” delle conseguenze lesive sulle persone, ma che tali conseguenze, ove ricorrano gli specifici indicatori passati in rassegna dalle recenti Sezioni Unite, sono state concretamente “previste ed accettate” dall’agente, finendo così per caratterizzarne la condotta in termini di dolo eventuale (rispetto all’evento lesivo o mortale): con la conseguenza, in questi casi, della impossibilità di configurare la nuova previsione, alla luce della consolidata giurisprudenza secondo cui affinché possa ravvisarsi il reato di cui all’art. 586 c.p. è necessario che l’evento lesivo costituito dalla morte e dalle lesioni, non sia voluto neppure in via indiretta o con dolo eventuale dall’agente, poiché questi, se pone in essere la propria condotta pur rappresentandosi la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze di essa e ciononostante accettandone il rischio, risponde, in concorso di reati, del delitto inizialmente preso di mira e del delitto realizzato come conseguenza voluta del primo.[7]

L’art. 452 quater c.p. punisce il disastro ambientale con la reclusione da cinque a quindici anni. Il legislatore specifica che si tratta di una ipotesi al di fuori dei casi previsti dall’art. 434 c.p. ossia crollo di costruzioni o altri disastri dolosi (per i quali è prevista la reclusione da uno a cinque anni se dal fatto deriva di pericolo per la pubblica incolumità, da tre a dodici anni se il crollo o il disastro avviene), e specifica che costituiscono disastro ambientale alternativamente:

1)     L’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema;

2)     L’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;

3)     L’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero il numero delle persone offese o esposte a pericolo.

Anche in questo caso la pena è aumentata quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette.

È prevista un riduzione di pena da un terzo a due terzi nelle ipotesi di inquinamento ambientale e di disastro ambientale colposi, e se dalla commissione di tali fatti deriva il pericolo le pene sono ulteriormente diminuite di un terzo.

Nella formulazione della fattispecie un ruolo importante hanno assunto – come dichiarato in via programmatica in sede di lavori parlamentari – i rilievi contenuti nella sentenza della Corte costituzionale n. 327 del 30 luglio 2008.

Dalle considerazioni sopra riportate emerge che, seppure ai diversi fini di ritenere sussistente la compatibilità con il principio di determinatezza del disposto del vigente articolo 434 c.p., la Corte Costituzionale ha ritenuto necessaria la compresenza di due elementi distinti, il primo dei quali attinente alla natura straordinaria dell’evento disastro e, il secondo, al pericolo per la pubblica incolumità che da esso deve derivare.

Si può notare allora come, invece, nella formulazione del nuovo articolo 452 quater c.p. l’elemento “dimensionale” e quello “offensivo” dell’evento siano richiesti non congiuntamente ma disgiuntamente (come emerge dall’uso, al comma primo, della parola “alternativamente”), soluzione che può essere forse coerente con la diversa offensività dell’ipotesi delittuosa qui considerata e cioè per l’appunto la lesione del bene protetto dell’ambiente piuttosto che l’attentato alla pubblica incolumità: si tratterà dunque di verificare se la formulazione, “recuperando” sul piano della tipicità attraverso una descrizione della condotta evidentemente più puntuale rispetto all’assenza di indicazioni (“fatti diretti a…”) nell’art. 434 c. p., risulti compatibile con il principio di determinatezza di cui all’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, alla luce di una adottata impostazione normativa differente rispetto a quella su cui si è già pronunciato il giudice delle leggi.

In ogni caso, la descrizione dell’evento di disastro pare riprodurre abbastanza fedelmente quei connotati di “nocumento avente un carattere di prorompente diffusione ed espansività e che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone”, già individuati dalla Cassazione negli indirizzi di cui si è fatto cenno in precedenza.

Una annotazione riguarda il carattere “irreversibile” dell’alterazione.

La prova della irreversibilità non desta particolari preoccupazioni ove si concordi che un disastro è irrimediabile anche qualora occorra, per una sua eventuale reversibilità, il decorso di un ciclo temporale talmente ampio, in natura, da non poter essere rapportabile alle categorie dell’agire umano; non sembra cioè poter aver credito un’opinione per la quale un ecosistema non può considerarsi irreversibilmente distrutto finché ne è teoricamente possibile, ipotizzando la compresenza di tutti gli ulteriori presupposti favorevoli, un ipotetico ripristino in un periodo però sensibilmente lungo o addirittura lunghissimo di tempo.

D’altra parte, è sufficiente – vista la struttura alternativa della fattispecie – che il disastro sia di ardua reversibilità, condizione che si verifica quando l’eliminazione dell’alterazione dell’ecosistema risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, con una duplice condizione (resa evidente dalla congiunzione “e”) che peraltro potrebbe far ricondurre alla minore fattispecie di inquinamento situazioni di gravissima compromissione ambientale, bonificabile solo con ingentissimi impegni economici ma che però non richiedano l’emanazione di provvedimenti amministrativi deroganti alla disciplina ambientale ordinaria.

L’inserimento della clausola “fuori dai casi previsti dall’articolo 434” presta il fianco a qualche difficoltà interpretativa.

L’asserzione contenuta nella citata sentenza 327/2008 della Corte Costituzionale – secondo cui l’art. 434 c. p., nella parte in cui punisce il disastro innominato, assolve pacificamente ad una funzione di “chiusura” del sistema – non sembra possa essere invocata, come invece è stato fatto in sede di dichiarazioni programmatiche, per giustificare la clausola di riserva: mentre infatti quella affermazione trovava evidente collocazione in un sistema di protezione penale dell’ambiente strutturato sulle violazioni formali e sul delitto ex art. 434 c. p., a seguito della introduzione di un delitto di disastro ambientale concepito come reato di evento (di danno) sembra più difficile immaginare un’ipotesi nella quale una fattispecie di aggressione dell’ambiente, irreversibile o di costosissima reversibilità, possa ricadere nel fuoco dell’art. 434 c. p., anziché del nuovo art. 452 quater. Non è perfettamente chiaro in altri termini il senso stesso della clausola, in quanto:

– o si è in presenza di un crollo o altro fatto traumatico che non abbia cagionato uno degli eventi del nuovo art. 452 quater, ossia una alterazione irreversibile o quasi dell’equilibrio di un ecosistema ovvero un’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo: ed allora non sembrerebbe porsi alcun problema di rapporto fra le fattispecie, donde la sostanziale inoperatività della riserva;

– ovvero il crollo (o altro fatto) ha cagionato un disastro, qualificabile come ambientale alla luce delle suddette connotazioni dell’evento: ed allora, mentre è ipotizzabile un eventuale concorso di reati (ma potrebbero valere le considerazioni sopra espresse in favore del possibile assorbimento nella nuova fattispecie), si dubita invece che possa prevalere, in forza della clausola di salvaguardia, la “vecchia” disposizione codicistica, avendo voluto il legislatore perseguire proprio il fine di evitare il ricorso all’art. 434 c.p., prevedendo una disciplina sanzionatoria ben più rigida.

Si è anche avanzata l’ipotesi residuale che l’inciso derivi semplicemente dalla volontà legislativa di ribadire l’intangibilità dei processi di disastro ambientale già rubricati sotto l’art. 434 c. p., sottolineandone in qualche modo l’impermeabilità alla nuova disciplina: una preoccupazione che, al di là della fondatezza (è difficile escludere in prima battuta scenari di possibile interferenza, ma il dato certo – ai fini della valutazione ed applicazione delle regole ex art. 2 c. p. – è che le nuove norme introducono inediti spazi di incriminazione o ampliano quelli già esistenti ed implicano un trattamento sanzionatorio sensibilmente più grave), sarebbe fronteggiata mediante il ricorso ad una “anomala” clausola di riserva, che per definizione non può certo limitare alle sole condotte già perfezionate la sua funzione di stabilire la priorità dell’applicazione di una norma rispetto ad un’altra.[8]

Con riferimento all’elemento soggettivo del reato le osservazioni della Cassazione appaiono significative. Come già osservato in precedenza, la Corte di Cassazione, infatti, ha spesso affermato che nel disastro innominato di cui all’art. 434 c. p. il dolo è intenzionale rispetto all’evento di disastro ed eventuale rispetto al pericolo per la pubblica incolumità, inquadramento che non subisce variazioni con riferimento alla ipotesi presa in considerazione dal comma secondo, qualificata dalla Corte come circostanza (di evento) aggravante e non invece come autonoma ipotesi di reato.

L’introduzione dei due nuovi delitti di evento riapre evidentemente il tema della natura del dolo.

Nella misura in cui non si punisce più un’ipotesi di disastro innominato, quale quella dell’art. 434 c. p., sostanzialmente assimilabile ad una fattispecie di attentato al bene ambiente, bensì una sua volontaria grave e concreta lesione, non pare allora escludibile, quanto meno su una piano teorico, la configurabilità e la sufficienza anche del dolo eventuale; per altro verso, la non sempre facile riconoscibilità, allorquando non si versi in re illicita, degli indici distintivi per come enucleati nel recente insegnamento delle Sezioni Unite (in sintesi: la lontananza dalla condotta standard negli ambiti governati da discipline cautelari; la personalità, la storia e le precedenti esperienze; la durata e ripetizione della condotta; la condotta successiva al fatto; il fine della condotta e la sua motivazione di fondo; la probabilità di verificazione dell’evento; le conseguenze negative anche per l’agente in caso di verificazione dell’evento; i tratti di scelta razionale; la verifica controfattuale) risulta qui particolarmente amplificata: e ciò sia per le caratteristiche fenomeniche della condotta di inquinamento o disastro ambientale (frutto di comportamenti quasi sempre stratificati, da valutare in rapporto a corpi normativi di difficile decifrazione tecnica), quanto per la presenza, nella novella, di corrispondenti e “confinanti” figure colpose di inquinamento e di disastro ambientale, che potrebbero fungere da catalizzatore, ricorrendone ovviamente gli estremi, nell’inquadramento (in particolare, sub specie di colpa con previsione) della maggior parte dei casi pratici.

Il nuovo art. 452 quinquies c. p. immette nel sistema le ipotesi in cui l’inquinamento e/o il disastro siano commessi per colpa, prevedendo una riduzione di pena sino ad un massimo di due terzi.

Al riguardo, la probabile importanza statistica delle manifestazioni colpose dei nuovi delitti potrebbe indurre a letture che accentuino il carattere direttamente precettivo del principio di precauzione – divenuto, con l’introduzione (nel 2008) dell’art. 3 ter del d. lgs. 152/2006, un principio di sistema del diritto ambientale cui devono attenersi le persone fisiche e giuridiche, pubbliche e private – e la sua conseguente rilevanza nella conformazione della colpa.

Tuttavia, è bene precisare che ad una siffatta interpretazione – in uno con le perplessità espresse dalla dottrina che ritiene il principio di precauzione inidoneo a produrre autonomamente nuove regole cautelari – pare opporsi con fermezza la stessa giurisprudenza di legittimità, che sottolinea da sempre la necessità di una stringente verifica, in concreto, della prevedibilità (oltre che della evitabilità) dell’evento dannoso.

La Corte di Cassazione ha affermato, infatti, che anche nell’ipotesi della violazione di quelle norme cautelari cd. elastiche, perché indicanti un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, è comunque necessario che l’imputazione soggettiva dell’evento avvenga attraverso un apprezzamento della concreta prevedibilità ed evitabilità dell’esito antigiuridico da parte dall’agente modello[9]: a maggior ragione, allora, poco spazio sembra residuare per una possibile rilevanza, ai fini dell’integrazione della colpa (generica), della inosservanza di comportamenti precauzionali non previamente tipizzati che, di volta in volta, pur nel rispetto delle regole cautelari invece tipizzate e dato per adempiuto l’unico obbligo positivo di informazione nei confronti della pubblica amministrazione, appaiano necessari – in base ad una valutazione ex ante – a sventare un rischio di evento inquinante o disastroso, individuato a seguito anche di una singola preliminare valutazione scientifica obbiettiva.

Non di agevole lettura si presenta il secondo comma dell’art. 452 quinquies, aggiunto dal Senato nella penultima lettura e contemplante una ulteriore diminuzione di un terzo della pena per il delitto colposo di pericolo ovvero quando dai comportamenti di cui agli artt. 452 bis e 452 quater derivi il pericolo di inquinamento ambientale e disastro ambientale. Se la struttura delle nuove fattispecie è quella di reati di evento, rispettivamente di inquinamento e di disastro, la previsione rischia di sovrapporsi – con quanto ne consegue in termini di difficile coordinamento – con le “antecedenti” condotte di pericolo già contemplate nell’ordinamento come contravvenzioni (basti pensare all’art. 257 d. lgs. 152/2006), a meno di non ipotizzare che la disposizione abbia una funzione di chiusura del sistema ed intenda coprire solo quei fatti colposi, oggettivamente idonei a cagionare un inquinamento o un disastro ambientale, che non integrino, già di per se stessi, una contravvenzione. In definitiva, la norma sembra dettata dalla preoccupazione di coprire analiticamente ogni condotta potenzialmente inquinante o disastrosa, forse nel desiderio di dare una risposta “ineccepibile” alla già citata Direttiva europea sulla protezione penale dell’ambiente (Direttiva 2008/99/CE del 19 novembre 2008) nella misura in cui essa richiede l’incriminazione di condotte anche pericolose: un timore che però non sembra aver tenuto nella dovuta considerazione che tale ambito dovrebbe – salvo errori – risultare già interamente presidiato, sul versante doloso in conseguenza della possibilità di configurare la fattispecie tentata dei nuovi delitti, su quello involontario per la ricordata presenza di plurimi illeciti contravvenzionali strutturati come reati di pericolo.[10]

L’art. 452 sexies c.p. punisce chiunque abusivamente cede, acquista, riceve, trasporta, importa, esporta, procura ad altri, detiene, trasferisce, abbandona o si disfa illegittimamente di materiale ad alta radioattività. Si tratta del delitto di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da euro 10.000 a euro 50.000.

Il legislatore ha previsto un aumento della pena se dal fatto deriva il pericolo di compromissione o deterioramento delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo (n. 1), di un ecosistema della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna (n. 2). A queste ipotesi si aggiunge l’aggravante, punita con l’aumento della pena fino alla metà, se dal fatto deriva pericolo per la vita o per l’incolumità delle persone.

Nel nostro ordinamento esiste già una disposizione – l’art. 3 della legge 7 agosto 1982, n. 704 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla protezione fisica dei materiali nucleari, con allegati, aperta alla firma a Vienna ed a New York il 3 marzo 1980) – secondo la quale “chiunque, senza autorizzazione, riceve, possiede, usa, trasferisce, trasforma, aliena o disperde materiale nucleare in modo da cagionare a una o più persone la morte o lesioni personali gravi o gravissime ovvero da determinare il pericolo dei detti eventi, ferme restando le disposizioni degli articoli 589 e 590 c.p., è punito con la reclusione fino a due anni. Quando è cagionato solo un danno alle cose di particolare gravità o si determina il pericolo di detto evento, si applica la pena della reclusione fino ad un anno”.

Sembra porsi un problema di coordinamento fra le disposizioni, laddove il nuovo art. 452 sexies pare coincidere con l’art. 3 legge n. 704/1982 almeno nel caso in cui una delle condotte materiali vietate determini il pericolo di morte o lesioni; fermo restando che occorrerà verificare la piena coincidenza normativa fra la nozione di “materiale nucleare” e quella di “materiale ad alta radioattività”. Un ulteriore problema di composizione si presenta in rapporto al secondo periodo del comma primo dell’art. 260 d. lgs. 152/2006 (disposizione in parte qua non toccata dalla novella), che prevede un’ipotesi aggravata di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti quando si tratti di rifiuti ad alta radioattività: la clausola di specialità apposta al nuovo art. 452 sexies c.p. fa ipotizzare che, ricorrendone gli elementi costitutivi (carattere di rifiuto, organizzazione, fine di ingiusto profitto; ingente quantità), la norma del codice ambientale possa assorbire la nuova fattispecie, contemplando peraltro la prima pene superiori – da tre ad otto anni di reclusione – rispetto a quelle previste nella ipotesi base di cui al primo comma della nuova fattispecie.

Un’ultima annotazione riguarda la natura giuridica del nuovo art. 452 sexies c. p. come norma a più fattispecie, da cui deriva – analogamente a quanto avviene in altri ambiti38 – che, da un lato, il reato è configurabile allorché il soggetto abbia posto in essere anche una sola delle condotte ivi previste, e che, dall’altro, deve escludersi il concorso formale di reati quando un unico fatto concreto integri contestualmente più azioni tipiche alternative previste dalla norma, poste in essere senza apprezzabile soluzione di continuità dallo stesso soggetto.[11]

Il delitto di cui all’art. 452 septies c.p. prevede la reclusione da sei mesi a tre anni, sempre che il fatto non costituisca più grave reato, per chiunque impedisce, intralcia o elude l’attività di vigilanza e controllo ambientale e di sicurezza e igiene del lavoro ovvero ne compromette gli esiti. Si tratta del delitto di impedimento del controllo che si realizza negando l’accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi.

La previsione introduce una fattispecie di reato a forma vincolata – poiché l’impedimento deve realizzarsi negando o ostacolando l’accesso ai luoghi, ovvero mutando artificiosamente lo stato dei luoghi – che peraltro non costituisce un semplice corollario di quanto disposto dagli articoli precedenti, in quanto la norma è destinata a trovare applicazione tutte le volte che sia ostacolato un campionamento o una verifica ambientale. La clausola di riserva potrebbe operare ove il fatto integri – ad esempio – le più gravi ipotesi di cui agli artt. 336 e 337 c. p.[12]

L’art. 452 terdecies c.p. punisce, salvo che il fatto costituisce più grave reato, l’omessa bonifica. Si tratta della condotta di chi, essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi. In queste ipotesi la pena prevista è la reclusione da uno a quattro anni e la multa da euro 20.000 a euro 80.000.

La nuova fattispecie non pare correre rischi di sovrapposizione con quella di cui all’art. 257 del d. lgs. 152/2006, che prevede una contravvenzione (arresto da sei mesi a un anno o ammenda da 2.600 euro a 26.000 euro) per chiunque cagiona l’inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio, se non provvede alla bonifica: la modifica di tale seconda disposizione, mediante l’introduzione della clausola di riserva “Salvo che il fatto costituisca più grave reato”, fa in modo infatti che essa possa operare solo nelle ipotesi di un superamento delle soglie di rischio che non abbia raggiunto (quanto meno) gli estremi dell’inquinamento, ossia che non abbia cagionato una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili dei beni (acque, aria, etc.) elencati indicati dall’art. 452 bis.

Altrettanto opportunamente, anche il testo del comma 4 dello stesso art. 257 ha subito una necessaria variazione, nel senso che l’avvenuta bonifica costituisce condizione di non punibilità “per le contravvenzioni (non più “per i reati”, come nella previgente formulazione) contemplate da altre leggi per il medesimo evento e per la stessa condotta di inquinamento di cui al comma 1”. Trattasi di modifica quanto mai necessaria, perché diversamente la bonifica si sarebbe potuta interpretare come causa di non punibilità sia del reato di inquinamento che del disastro ambientale con effetti “reversibili”, in chiaro contrasto con la volontà della novella che la configura come forma di ravvedimento operoso con effetto di circostanza attenuante; a seguito dell’intervento emendativo, la bonifica ex art. 257 d. lgs. agisce dunque come causa estintiva solo con riferimento a quelle violazioni formali (in primis, il superamento delle soglie di rischio) che non abbiano però cagionato gli eventi atti a configurare i reati di cui agli artt. 452 bis e 452 quater, ipotesi nelle quali opera solo in senso attenuativo della pena.[13]

Nella legge 68/2015 si prevede una serie di circostanze aggravanti nel caso di associazione a delinquere (art. 416 c.p.), quando la stessa è diretta, in via esclusiva o concorrente, allo scopo di commettere taluno dei delitti contro l’ambiente, nel caso di associazione a delinquere di tipo mafioso (art. 416 bis c.p.), quando l’associazione de qua è finalizzata a commettere taluno dei delitti previsti dal titolo VI bis del secondo libro c.p. ovvero all’acquisizione della gestione o del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti o di servizi pubblici in materia ambientale.

Viene inoltre introdotta la circostanza aggravante ambientale prevista dall’art. 452 novies c.p. per la quale la pena viene aumentata da un terzo alla metà quando un qualsiasi reato venga commesso allo scopo di eseguire uno dei delitti contro l’ambiente previsti dal nuovo Titolo VI bis del libro secondo del c.p., dal Codice dell’ambiente (d.lgs. 152/2006) o da altra disposizione di legge posta a tutela dell’ambiente. È inoltre previsto un aumento di un terzo della pena se dalla commissione del fatto derivi la violazione di disposizioni del codice dell’ambiente o di altra legge a tutela dell’ambiente.

In ogni caso, sancisce il legislatore, il reato è procedibile d’ufficio.

L’introduzione di circostanze aggravanti “ambientali” applicabili al reato di associazione a delinquere è chiaramente ispirata (in chiave di politica criminale) alla volontà di contrastare il fenomeno delle organizzazioni i cui profitti derivino in tutto o in misura consistente dalla criminalità ambientale. Tuttavia, la scelta rischia di generare problematicità superiori ai concreti benefici. Si è sottolineato, infatti, il possibile dubbio di costituzionalità che potrebbe derivare dal confronto con il minore trattamento sanzionatorio di associazioni finalizzate alla commissione di reati più gravi, nella loro singola cornice edittale, rispetto a quelli di inquinamento e disastro (basti pensare all’omicidio); si tratterà allora di verificare se sia giustificata e razionale una previsione di maggior rigore per il solo fatto associativo in sé, quando diretto alla commissione di reati edittalmente “meno gravi” ancorché a più ampia ed impattante diffusività lesiva.

Sotto altro profilo, l’effetto di rafforzamento sanzionatorio potrebbe rivelarsi in concreto più simbolico che reale, laddove mitigato – nella concreta dosimetria della pena – dall’applicazione del cumulo giuridico nei casi di concorso tra la fattispecie associativa e i singoli delitti-scopo.[14]

È prevista una circostanza aggravante soggettiva per la quale le pene sono aumentate da un terzo alla metà se dell’associazione fanno parte pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio che esercitano funzioni o svolgono servizi in materia ambientale.

La pena è diminuita dalla metà a due terzi nei confronti di colui che si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, ovvero, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile al ripristino dello stato dei luoghi.

La pena è diminuita da un terzo alla metà nei confronti di colui che aiuta concretamente l’autorità di polizia o giudiziaria nella ricostruzione del fatto, nella individuazione degli autori o nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti.

Inoltre, ove il giudice, su richiesta dell’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado disponga la sospensione del procedimento per un tempo congruo, comunque non superiore a due anni e prorogabile per un periodo massimo di un ulteriore anno, al fine di consentire il ravvedimento operoso, il corso della prescrizione è sospeso.

L’attenuante del ravvedimento operoso si applica solamente per il delitto di associazione per delinquere di cui all’art. 416 c.p. aggravato ai sensi dell’art. 452 octies, nonché per il delitto p. e p. dall’art. 260 d.lgs. 152/2006.

Anche in questo caso la Cassazione pone degli spunti significativi. La fattispecie, infatti, pare mescolare ipotesi avvicinabili al ravvedimento operoso (“…si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori … nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti…“), ad altre più inquadrabili come forme di collaborazione processuale (“…aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto, nella individuazione degli autori…), ad altre ancora operanti come condotte riparatorie (“…provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi…”), tutte comunque idonee non a provocare l’estinzione del reato ma a determinare un sensibile beneficio sul piano sanzionatorio.[15]

Trattandosi, inoltre, di una facoltà del giudicante che procede (“ove il giudice…”), legata ovviamente ad una valutazione non meramente discrezionale42, la “meritevolezza” della sospensione potrebbe agganciarsi ad una verifica della concreta volontà dell’imputato di procedere alla bonifica: in tal senso, un ausilio potrebbe derivare dall’analisi della giurisprudenza della Cassazione in tema di omessa bonifica prevista dall’art. 257 d. lgs. 152/2006. Come noto, infatti, il punto dolente di tale ultima disposizione, sul terreno dell’efficacia della risposta repressiva/ripristinatoria, risiede nel fatto che gli obblighi preliminari al progetto di bonifica – l’obbligo di indagine preliminare, di caratterizzazione e di analisi di rischio sito specifica – pur posti in linea di massima a carico del soggetto inquinatore, non sono più provvisti di autonoma sanzione, né penale, né amministrativa, per il caso di loro inosservanza; sicché in caso di inerzia del soggetto, tale da impedire che si arrivi ad un progetto di bonifica da sottoporre alla approvazione dell’organo competente, il reato non sarebbe concretamente perseguibile.

È questo il convincimento raggiunto dalla giurisprudenza della Cassazione, secondo cui “in assenza di un progetto definitivamente approvato, non può configurarsi il reato di cui all’art. 257 TUA. Non sembra possibile, alla luce del principio di legalità, stante il chiaro disposto normativo, estendere l’ambito interpretativo della nuova disposizione ricomprendendo nella fattispecie anche l’elusione di ulteriori adempimenti previsti dall’art. 242 TUA ed estendere quindi il presidio penale alla mancata ottemperanza di obblighi diversi da quelli scaturenti dal progetto di bonifica se non espressamente indicati”. In un altro arresto, tuttavia, la Corte ha ravvisato la condizione a contenuto negativo dell’omessa bonifica anche nella sola omissione, da parte del soggetto tenuto, del piano di caratterizzazione, tale da impedire la stessa formazione del progetto di bonifica e, quindi, la sua realizzazione.

Rovesciando adesso l’angolo prospettico – non più determinato dalla necessità di evitare un vuoto di tutela conseguente ad un’incongruente scelta normativa (che non presidia con sanzione una serie di adempimenti funzionali alla bonifica, pur assegnandoli alla autodeterminazione del soggetto obbligato), ma alla luce di una fattispecie odierna che “premia” il comportamento riparatorio dell’imputato attenuando la sanzione prevista per i nuovi delitti – si tratterà allora di verificare se il livello di collaborazione giustificante un provvedimento non privo di conseguenze, quale la sospensione del dibattimento e la conseguente sospensione della prescrizione, debba individuarsi nell’avvio empiricamente verificabile delle operazioni materiali di bonifica (situazione che sicuramente testimonia di un atteggiamento operoso finalizzato al ripristino ambientale), nella approvazione del progetto operativo ovvero nella sua avvenuta presentazione (momento, quest’ultimo, a partire dal quale l’esito della procedura complessiva esce dal dominio prevalente del soggetto inquinatore) o anche solo nel completamento delle operazioni preliminari alla bonifica (fase forse ancora non sicuramente illuminante di un effettivo “ravvedimento”).

Sul piano strettamente processuale, un ultimo cenno merita infine l’ipotesi in cui, in ragione del ricorso a riti speciali, non sia prevista l’apertura del dibattimento.

L’assenza di lumi normativi e (ovviamente) di conforti giurisprudenziali non consente di formulare conclusioni sicure: con cautela, non pare nemmeno disistimabile una eventuale interpretazione (ratione legis) che escluda, una volta che l’imputato sia stato ammesso al rito abbreviato o abbia formulato istanza di applicazione di pena concordata, la possibilità di richiedere ed ottenere la sospensione del processo per completare la bonifica, in ragione della connaturata funzione acceleratoria e semplificatoria di tali riti alternativi rispetto all’ordinario percorso dibattimentale; una incompatibilità “strutturale” che, anche ove non ritenuta motivo di inammissibilità della richiesta, potrebbe peraltro sorreggere il potere discrezionale del giudice nel rigettare una richiesta formulatagli in sede di abbreviato o di patteggiamento.[16]

Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., per tutti i nuovi delitti introdotti con la legge 68/2015 è sempre ordinata la confisca delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato o che servirono a commettere il reato, salvo che appartengano a persone estranee al reato. Se la stessa non è possibile il giudice individua beni di valore equivalente di cui il condannato abbia anche indirettamente o per interposta persona la disponibilità e ne ordina la confisca.

In ogni caso i beni confiscati o i loro eventuali proventi sono messi nella disponibilità della pubblica amministrazione competente e vincolati all’uso per la bonifica dei luoghi.

La confisca non viene applicata se l’imputato abbia in modo efficace provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica e di ripristino dello stato dei luoghi.

Da una prima lettura della Cassazione, dalla confisca sembrerebbe essere esclusi, secondo il dato testuale, l’inquinamento e il disastro ambientali colposi, il che – costituendo tali ipotesi verosimilmente la maggioranza dei casi pratici – attenua fortemente l’efficacia dello strumento. Peraltro, va segnalato che il secondo comma dispone che la confisca per equivalente sia applicabile “quando, a seguito di condanna per uno dei delitti previsti dal presente titolo, sia stata disposta la confisca di beni ed essa non sia possibile”: il riferimento indistinto a (tutti) i “delitti previsti dal presente titolo” è quasi certamente addebitabile a un mero lapsus del legislatore, ma potrebbe anche insinuare l’ipotesi alternativa che, ferma la confisca obbligatoria per i soli delitti dolosi indicati nel comma prima dell’articolo, per quelli colposi residui la praticabilità della confisca facoltativa.

Con riguardo specifico alla confisca per equivalente, va segnalato uno scostamento rispetto alla formulazione adoperata nell’art. 322 ter c. p.: mentre in quest’ultima disposizione si prevede che la confisca di valore sia disposta “… quando essa (la confisca diretta) non è possibile …”, il comma 2 del nuovo art. 452-undecies stabilisce che “quando … sia stata disposta la confisca di beni ed essa non sia possibile…”, suggerendo l’ipotesi – cui si oppone però con forza una interpretazione sistematica dell’istituto – di un iter procedurale che passi prima per un provvedimento di ablazione diretta e, solo all’esito negativo, per un secondo provvedimento di confisca per equivalente.

Nella formulazione definitiva, la norma contiene una clausola di salvaguardia a tutela dei terzi estranei al reato, con formulazione strutturata sulla falsariga del comma 3 dell’art. 240 c. p. (“persona estranea al reato”); sul punto, sarò interessante verificare l’incidenza dell’orientamento46 della Cassazione che, in una ipotesi analoga per contesto e finalità quale quella del trasporto illecito di rifiuti di cui all’art. 259 del d. lgs. n. 152 del 2006, pretende non solo l’estraneità al reato ma anche la buona fede del terzo.

La norma vincola la destinazione dei beni confiscati o dei loro proventi all’utilizzo per la bonifica dei luoghi, un dato che sembra spostare l’asse dell’inquadramento giuridico della confisca verso un carattere risarcitorio/ripristinatorio piuttosto che sanzionatorio, con quanto ne consegue anche in termini di possibile applicazione anche in caso di estinzione del reato in assenza di condanna per maturata prescrizione.

Anche quando la disposizione aggiunge che i beni siano messi “nella disponibilità” della pubblica amministrazione manca una chiara definizione normativa della forma giuridica di tale “disponibilità”. Minori incertezze dovrebbero esserci nell’individuare nella Regione, titolare del potere autorizzativo alla bonifica, la “pubblica amministrazione” cui rimettere i beni confiscati nella ordinarietà dei casi.[17]

Il giudice, in caso di condanna o di patteggiamento, ordina il recupero e, ove tecnicamente possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a carico del condannato.

Nella formulazione definitiva è presente un secondo comma, diretto a prevedere una più puntuale disciplina della procedura di ripristino dei luoghi attraverso il rinvio alle disposizioni del Codice dell’Ambiente che già prevedono tale procedura. Tuttavia, l’utilizzo del termine “recupero”, riferito – come pare – allo stato dei luoghi, rischia di generare qualche equivoco, poiché nel Codice dell’Ambiente, tale espressione è adoperata con diverso e specifico riferimento alle operazioni di riutilizzo dei rifiuti: una lettura coerente con l’intero impianto della normativa dovrebbe condurre ad una interpretazione omnicomprensiva del lemma, che porti ad includervi ogni attività materiale e giuridica necessaria per il “recupero” dell’ambiente inquinato o distrutto, e dunque anche e soprattutto la bonifica del sito da ogni particella inquinata e da ogni agente inquinante; laddove il “ripristino” si colloca evidentemente su un piano ulteriore che contempla, ove possibile, la ricollocazione o riattivazione delle componenti che siano andate distrutte ovvero rimosse in quanto irrimediabilmente compromesse.[18]

La prescrizione con riferimento ai nuovi reati ambientali si raddoppia rispetto a quelli ordinari previsti dall’art. 157, comma 6 c.p.

Tale allungamento, interpreta la Cassazione, è stato pensato evidentemente proprio in rapporto alle fattispecie di inquinamento e disastro con condotte progressive e stratificate, in rapporto alle quali si tratterà evidentemente, nella giurisprudenza, di verificare il termine iniziale di decorrenza.

Con riguardo all’art. 434 c.p., la Cassazione aveva affermato che la fattispecie di cui al primo comma, reato di pericolo a consumazione anticipata, si perfeziona, nel caso di contaminazione di siti a seguito di sversamento continuo e ripetuto di rifiuti di origine industriale, con la sola “immutatio loci”, purché questa si riveli idonea a cagionare un danno ambientale di eccezionale gravità.[19]

Recentemente, con riferimento all’ipotesi di cui al comma secondo dell’art. 434 c.p., la Corte ha statuito che il momento di consumazione del reato coincide con l’evento tipico della fattispecie e quindi con il verificarsi del disastro, da intendersi come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità, ma rispetto al quale sono effetti estranei ed ulteriori il persistere del pericolo o il suo inveramento nelle forme di una concreta lesione; ne consegue che non rilevano, ai fini dell’individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione, eventuali successivi decessi o lesioni pur riconducibili al disastro. In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto che la consumazione del disastro doloso, mediante diffusione di emissioni derivanti dal processo di lavorazione dell’amianto, non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione. [20]

Con la nuova struttura di delitto di evento del disastro ambientale e con l’introduzione del delitto (sempre di evento) di inquinamento ambientale si ripropone evidentemente il tema del tempus commissi delicti: occorrerà, infatti, verificare quale sia esattamente il momento nel quale possono dirsi integrati gli specifici eventi che qualificano i delitti nel nuovo catalogo, tenuto conto che in queste tipologie di reati il loro perfezionamento potrebbe verificarsi a distanza di tempo rispetto all’ultima condotta di materiale immissione di sostanze o comunque di fisica alterazione o manomissione dell’assetto preesistente. In ogni caso, è indubbio che l’accertamento e la repressione dei più gravi delitti ambientali godono oggi di un termine oggettivamente macroscopico (nel caso di disastro ambientale doloso, pari a quarant’anni, allungati sino a cinquanta in presenza di atti interruttivi), rispetto al quale stridono i brevissimi termini dei reati contravvenzionali prodromici.[21]

In caso di avvio di indagini su ipotesi di inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività nonché traffico illecito di rifiuti (“reati spia”), il Pubblico Ministero che indaga dovrà darne notizia al Procuratore nazionale antimafia.

In assenza di danno o pericolo si rafforza, per le violazioni ambientali di natura contravvenzionale previste dal Codice dell’ambiente, l’applicazione della “giustizia riparativa”, puntando alla regolarizzazione attraverso l’adempimento a specifiche prescrizioni e al pagamento in misura ridotta dell’ammenda. Tali prescrizioni possono comprendere anche misure per far cessare o proseguire situazioni di pericolo.

In caso di buon esito della prescrizione e del pagamento della sanzione il reato si estingue.

Il legislatore, intervenendo sull’art. 25 undecies del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ha previsto l’applicazione di sanzioni pecuniarie alle persone giuridiche che commettono illeciti amministrativi dipendenti da reato.

Esse vanno da 205 a 600 quote per il reato di delitto di inquinamento ambientale; da 400 a 800 quote per il reato di disastro ambientale; da 300 a 1000 quote per associazione a delinquere (comune o di tipo mafioso); da 250 a 600 quote per il delitto di traffico e abbandono di materiale radioattivo.

In caso di delitto di inquinamento ambientale e di disastro ambientale si applicano le sanzioni interdittive (ad es. interdizione dall’esercizio dell’attività, sospensione o revoca licenze, autorizzazioni o concessioni, divieto di contrattare con la PA etc.), che non possono essere superiori ad un anno.

Per le ipotesi colpose relative ai delitti di inquinamento ambientale e di disastro ambientale le sanzioni pecuniarie e interdittive sono diminuite di un terzo.

Resta al momento fuori il reato di ispezione dei fondali marini con la tecnica dell’air gun o altre tecniche esplosive per le attività di ricerca e la coltivazione di idrocarburi.

Il comma nono dell’art. 1 della legge n. 68 del 2015 introduce nel Codice dell’Ambiente una “Parte sesta bis” contenente la disciplina sanzionatoria degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale, costituita da sette nuovi articoli (artt. da 318 bis a 318 octies).

Le disposizioni introdotte, modellate sulle previsioni contenute negli articoli 19 e seguenti del decreto legislativo n. 758 del 1994 (recante modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro), replicano il meccanismo di estinzione degli illeciti mediante adempimento delle prescrizioni impartite e pagamento di somma determinata a titolo di sanzione pecuniaria.

L’art. 318 bis indica l’ambito applicativo della disciplina, applicabile alle ipotesi contravvenzionali in materia ambientale che non hanno cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette.

Qualche dubbio interpretativo deriva dal fatto che la norma fa menzione solo delle “ipotesi contravvenzionali”, sebbene nella intitolazione della nuova parte sesta bis si parli anche di illeciti amministrativi; inoltre, si tratterà di verificare la possibile estensione della disciplina estintiva a contravvenzioni non contemplate nel Codice dell’Ambiente, ma ricomprensibili nella “materia ambientale”.

Il concreto atteggiarsi del procedimento è regolato:

– dall’art. 318 ter, che riguarda le prescrizioni da impartire al contravventore, di competenza dell’organo di vigilanza (o della polizia giudiziaria), il termine per la regolarizzazione, l’obbligo di comunicazione della notizia di reato al pubblico ministero;

– dall’art. 318 quater, che regola la verifica dell’adempimento e l’irrogazione della sanzione, entro termini determinati, attraverso una serie di fasi procedimentali;

– dall’art. 318 quinquies, che prevede obblighi di comunicazione da parte del PM, che abbia in qualsiasi modo notizia della contravvenzione, all’organo di vigilanza o alla polizia giudiziaria, per consentire di imporre le prescrizioni;

– dall’art. 318 sexies, che stabilisce i termini di sospensione del procedimento penale e le attività di indagine e cautelari effettuabili in loro pendenza;

– dall’art. 318 septies, che prevede l’estinzione della contravvenzione a seguito sia del buon esito della prescrizione che del pagamento della sanzione amministrativa, cui consegue l’archiviazione del procedimento da parte del pubblico ministero; la disposizione configura, infine, l’ipotesi di adempimento tardivo o con modalità diverse della prescrizione, facendone derivare la possibile applicazione di un’oblazione ridotta rispetto alle previsioni di cui all’articolo 162 bis c.p.;

– dall’art. 318 octies, norma transitoria per la quale la disciplina per l’estinzione delle contravvenzioni non si applica ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore.

Il comma quinto dell’art. 1 del provvedimento di legge interviene sull’articolo 32 quater c.p., relativo ai casi nei quali alla condanna per alcuni delitti consegue l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, aggiornando il catalogo dei delitti ivi previsti attraverso l’inserimento dell’inquinamento ambientale, del disastro ambientale, del traffico ed abbandono di materiale ad alta radioattività, dell’impedimento del controllo e delle attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti. In tema di coordinamento di indagini in materia ambientale, la novella (art. 1 comma 7) introduce il dovere del pubblico ministero di dare comunicazione al Procuratore nazionale antimafia dell’avvio delle indagini su ipotesi di inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico ed abbandono di materiale di alta radioattività, nonché attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti. In una prima formulazione, tale obbligo passava per l’introduzione dell’art. 118 ter (Coordinamento delle indagini in caso di delitti contro l’ambiente) nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura; nel testo definitivo, l’obbligo informativo a carico del procedente è ottenuto mediante l’integrazione del vigente articolo 118 bis delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale in materia di coordinamento delle indagini; il nuovo testo esclude però dal catalogo dei reati contro l’ambiente la fattispecie di cui all’articolo 260 del Codice dell’Ambiente (attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti) ed aggiunge quella associativa di cui all’art. 452 octies; la disposizione prevede, inoltre, che il Procuratore della Repubblica debba dare notizia dell’avvio delle indagini sui reati ambientali anche all’Agenzia delle entrate ai fini dei necessari accertamenti. L’articolo 2 della legge – introdotto nel corso dell’esame al Senato – modifica gli articoli 1, 2, 5, 6, 8-bis e 8-ter della legge 7 febbraio 1992, n. 150 – recante la “Disciplina dei reati relativi all’applicazione in Italia della convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, firmata a Washington il 3 marzo 1973, di cui alla legge 19 dicembre 1975, n. 874, e del regolamento (CEE) n. 3626/82, e successive modificazioni, nonché norme per la commercializzazione e la detenzione di esemplari vivi di mammiferi e rettili che possono costituire pericolo per la salute e l’incolumità pubblica”: le nuove disposizioni rendono più severa tale disciplina sanzionatoria, di natura contravvenzionale o amministrativa.[22]

Angela Allegria

Ottobre 2015

In Nuove Frontiere del Diritto


[1] La risposta ai fenomeni criminali di inquinamento dell’ecosistema era in precedenza affidata all’utilizzo del c.d. disastro innominato previsto dall’art. 434 c.p.

[2] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, 29 maggio 2015, in www.cortedicassazione.it.

[3] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., p. 4.

[4] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., pp. 5-6.

[5] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., pp. 6-7.

[6] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., p. 8.

[7] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., pp. 13-14.

[8] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., pp. 18-19.

[9] Cass. sez. 4, n. 26239 del 19 marzo 2013.

[10] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., pp. 20-22.

[11] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., p. 24.

[12] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., p. 25.

[13] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., p. 32.

[14] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., p. 25.

[15] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., p. 25.

[16] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., pp. 28-29.

[17] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., p. 30.

[18] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., pp. 31-32.

[19] Cass, sez. III, n. 46189 del 14 luglio 2011.

[20] Cass, sez. I, n. 7941 del 19 novembre 2014.

[21] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., pp. 33-34.

[22] Cass., ufficio del massimario, settore penale, relazione n. III/04/2015, cit., pp. 34-36.

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